sabato 6 novembre 2021

 A proposito di linguaggio politico... 

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martedì 14 settembre 2021

 

A proposito dell’elefante: considerazioni sulla retorica di Virginia Raggi

Cerchiamo di riflettere su alcune strategie discorsive che potrebbero contribuire a condurre Virginia Raggi nuovamente alla vittoria elettorale: l’esperienza che si ha della politica è innanzitutto il linguaggio politico che viene usato. Saperlo decodificare, rendendone espliciti i meccanismi, emancipa l’elettore dal tentativo di essere coinvolto nella costruzione di un universo discorsivo inclusivo, in cui l’errore macroscopico, la furbizia e le contraddizioni, pur spesso evidenti, perdono la loro valenza reale e, venendo minimizzate, rientrano coerentemente nella costruzione di un non ben definito mondo migliore di là da venire. In questo caso, quello creato artificialmente, ad hoc da Virginia Raggi.

di Maria Squarcione


Allora, l’abbiamo lasciata in televisione nel 2016 all’appello finale con un primo piano sparato sulla faccia che implorava di essere votata per «cambiare verso a questa città» e poi, dopo la vittoria, felice, mentre proclamava da un palco «che il vento sta cambiando», e ce la ritroviamo oggi, il 18 maggio scorso, ospite del programma di Floris, che conferma la sua ricandidatura e si offre alle domande di un piccolo parterre, tutto sommato innocuo. Chiede scusa la Sindaca – più volte come ha fatto notare il giornalista Caprarica – per «errori dettati dall’inesperienza», ma rivendica la sua tenacia, quella dimostrata per essere cresciuta a «pane e mazzate» durante questi cinque anni, al termine dei quali, dopo aver sanato «una macchina amministrativa devastata», finalmente può dirsi carica di esperienza. Eh sì, perché i suoi «cinque anni di amministrazione ne valgono quindici in un ministero» a detta sua e non augura a nessuno i suoi primi due anni di mandato. E così via. Ancora, parla del risanamento dei «250 milioni di buco [a proposito dei bilanci AMA] passato sotto il naso dei cosiddetti esperti», che le hanno impedito di approvare tre bilanci di seguito della municipalizzata che si occupa dei rifiuti a Roma e della fatica di riprendere «le redini di un’amministrazione che era allo sbando». Rivela che grazie alla sua giunta si stanno spendendo fondi europei che prima non venivano utilizzati; che Roma finalmente sta tornando ad essere il centro cui tutti tendono, dagli sportivi, agli attori, ai gruppi cinematografici (Netflix), come a quelli tecnologici (Apple), sottinteso grazie alla sua sindacatura, e che finalmente si cominciano a vedere i risultati del grande impegno profuso finora, dal rifacimento delle strade, alla riapertura di asili nido o del Mausoleo di Augusto, al mantenimento dell’ATAC pubblica, alla fornitura dell’acqua in un non ben precisato quartiere di Roma, dove mancava o all’acquisto di 900 autobus nuovi per le esigenze delle periferie. Non ama parlare di alleanze o di strategie politiche, perché «il patto si fa con i cittadini» e se le eventuali alleanze non si costruiscono su precisi punti programmatici in comune, queste sono destinate a crollare «al primo mohito». Così parla la Sindaca «da amministratore», come ama definirsi, rifuggendo qualsiasi ruolo che la circoscriva in una dimensione nazionale e squisitamente politicista. Virginia Raggi è la Sindaca di Roma e, in virtù dell’esperienza acquisita – a parte qualche “sbavatura” della quale si è scusata pubblicamente, come nel caso delle arance al sindaco Marino, perché «solo un sindaco di Roma può giudicare un sindaco di Roma» – e del gran lavoro fatto sul piano operativo – basti guardare la città che è piena di cantieri, osserva – chiede che gli elettori la scelgano in nome della continuità, perché «senza continuità, Roma si fermerebbe e sarebbe una tragedia».

Questo, in sintesi, l’ordito della sua argomentazione, espressa in modo sicuro e chiaro e che ce la restituisce mediaticamente molto diversa da quella ragazza che spesso sembrava telecomandata dalla Casaleggio e associati. Ora, a molti, per “smontare” il suo punto di vista così positivo sul proprio governo, sembrerà opportuno e sufficiente il fact-checking tra le promesse fatte in campagna elettorale e i risultati effettivamente ottenuti o la semplice osservazione dello scarsissimo livello del decoro e della qualità della vita cittadina negli ultimi anni; e in ambedue i casi probabilmente basterebbe fermarsi alle prime tre/quattro osservazioni per capire quanto la Sindaca poco sia stata all’altezza del suo compito e delle aspettative che aveva suscitato. Ma qui interessa non tanto insistere sull’ovvio (ma l’impulso all’apertura dei cantieri a Roma è merito della Sindaca o della legge nazionale sui superbonus?), bensì cercare di riflettere su alcune strategie discorsive che potrebbero contribuire a condurre Virginia Raggi nuovamente alla vittoria elettorale.

Strategie di comunicazione

Cominciamo dalla nota argomentazione, usata ed abusata, di rimandare la responsabilità delle difficoltà di governo “a quelli di prima”. Certamente la Raggi oggi non usa più questo escamotage dialettico in modo rozzo, così come aveva fatto nei primi tempi della sua consiliatura, attribuendo totalmente la responsabilità del degrado di Roma alle vecchie amministrazioni, tanto da far scatenare i social in una messe di esilaranti meme che richiamavano in causa i “precedenti”, fino a Nerone. Oggi, dice la Sindaca, il momento più basso della vita municipale lo si è raggiunto con il fenomeno di Mafia Capitale, al quale, per la verità, l’allora Sindaco Marino era completamente estraneo: da qui le scuse. Ma l’argomento eziologico, cioè quello della ricerca delle cause, compare ancora nel suo ragionamento: ad esempio, nella trasmissione de La7, In Onda, del 3.9.2020, durante l’intervista rilasciata ai conduttori a proposito della sua ricandidatura da poco annunciata, la Raggi esordisce attribuendo alle lungaggini implicite nella legislazione italiana i tempi lunghi di realizzazione delle opere a Roma; oppure allo sforzo di risanamento di una macchina amministrativa devastata, la scarsa efficienza di alcune azioni di governo o al debito esoso lasciato da coloro che l’avevano preceduta o ancora al risanamento di una struttura lasciata a se stessa per decenni. Il nesso di causalità è proprio dell’argomentazione giuridica, e alla Sindaca, essendo avvocata, certamente non è sconosciuto. Ma questo argomento ha avuto anche la funzione retorica di contribuire a costruire il frame cognitivo della città come il luogo della rinascita dopo anni di incuria e malaffare, grazie all’azione salvifica dei 5Stelle. Tutta l’argomentazione moralistica dei pentastellati, durata anni, si “scioglie” finalmente nella vittoria purificatrice di Virginia Raggi, la cui missione principale è appunto la redenzione di Roma e la Capitale, a sua volta, è figura della redenzione nazionale. Insomma, una contrapposizione appunto etica, prima che politica, tra il Bene e il Male, uno scontro epico e totalmente manicheo, dove tutto il Bene, neanche a dirlo, sta dalla parte della Sindaca e tutto il Male dalla parte delle «amministrazioni precedenti», senza ulteriori distinzioni.

Non solo. Sempre a proposito del discorso retorico, la tradizione oratoria ci rimanda alla dottrina del discorso giudiziario e dello status causae, cioè al cuore della retorica forense. Questa prevedeva la possibilità della concessio o excusatio, ovvero il grado più debole della difesa, dove l’imputato non si difendeva più dall’accusa di aver commesso un certo reato, ma chiedeva perdono per averlo commesso. A sua volta, la richiesta di perdono poteva articolarsi come purgatio – cioè con la motivazione della buona fede da parte dell’accusato dovuta ad errore, ad un fatto casuale, a necessità – o come deprecatio, cioè semplicemente come supplica ed invocazione di perdono. Ebbene, le “scuse” sono entrate massicciamente nel discorso politico, come topos argomentativo, proprio grazie a Virginia Raggi e, in generale, a molti esponenti grillini, che le hanno spesso invocate a fronte di uno “sbaglio” – a prescindere dalla gravità del medesimo – in nome della loro “buona fede” o, come nel caso della Sindaca, dell’ammissione d’inesperienza. Ma a differenza della loro funzione retorica originaria, per la quale le scuse rimettevano completamente la sorte dell’accusato nelle mani di chi lo doveva giudicare ed implicavano, a fronte dell’ammissione del reato, l’obbligo di pagare il proprio debito e di scontare una pena, nel caso dell’uso politico invece, le scuse sono di per se stesse assolutorie e, per il solo fatto di averle pronunciate, rappresentano la panacea del problema eventualmente creato. Finanche il perdono cristiano, che avviene dopo la confessione e quindi dopo l’ammissione della colpa, prevede, per essere ottenuto, la penitenza. 

È fin troppo chiaro che questo spostamento di piani rientra in una strategia di avvicinamento tra il politico e l’uditorio di riferimento (tecnicamente, embrayage) – il politico sbaglia come tutti noi sbagliamo e come tutti noi chiede scusa – ma soprattutto è funzionale all’oscuramento del tema della responsabilità. Il politico, quando agisce, lo fa in nome della collettività, dalla quale ha ottenuto una delega e si assume quindi una responsabilità di natura pubblica. Le scuse sono un fatto puramente individuale che, sebbene doverose sul piano morale, non emancipano chi le pronuncia dal pagare un prezzo per un errore fatto in nome di quella collettività che si rappresenta. E tanto meno hanno una funzione auto-assolutoria.

Il circuito retorico dell’argomentazione che la Sindaca ha espresso durante l’intervista televisiva alla quale ci si riferisce si chiude con la peroratio, ampiamente utilizzata da Raggi anche nelle elezioni del 2016, come ricordato all’inizio di questo articolo. Ma al contrario della campagna elettorale precedente, stavolta la Sindaca non è più “supplicante”, ma può far riferimento alla competenza acquisita, che ora può esprimere sul piano della capacità, della credibilità, del poter e del saper fare: lei parla «da amministratore», ormai sa come funziona la «macchina amministrativa», non come i suoi avversari che «la fanno un po’ sorridere», perché le ricordano la se stessa di cinque anni fa. In quella campagna elettorale, la competenza dell’aspirante Sindaca era tutta giocata sul desiderio, sull’affidabilità del voler fare e del dover fare, mentre oggi Virginia Raggi sa di cosa parla e può mettere al servizio della città la continuità della sua consiliatura, l’esperienza maturata in cinque anni «non tranquilli» di governo, durante i quali si è fatta «le spalle grosse».

Un cambiamento di registro tutto sommato prevedibile, sorretto da un argomento facile, cioè quello ad hominem, che mette in relazione il ruolo e la funzione realmente svolti dalla Sindaca con le sue affermazioni. Una strategia difficilmente confutabile, se non entrando nel merito di ogni singolo provvedimento e valutandolo alla luce dei risultati ottenuti: la Sindaca invece propone un discorso “chiuso”, sillogistico, quasi meccanico, che parte da premesse certificate dalla sua parola, dunque vere e autorevoli, e che “stringe” gli interlocutori nella sua logica circolare di affermazioni apodittiche. Inevitabilmente ne viene fuori un ragionamento tutto sommato coerente al suo interno, soprattutto se se ne accettano le premesse, tutte legate al grande impegno profuso, alla “buona fede” delle proprie azioni, alle difficoltà riscontrate (sempre dovute a cause esogene) e alla necessità di porvi rimedio, senza interrompere proprio sul più bello un lavoro proficuo iniziato con il suo mandato. In caso contrario, incomberebbe sulla città una biblica «tragedia».

Questa, a grandi linee, la logica tutta retorica che la Sindaca ha fin qui utilizzato per motivare la sua ricandidatura, a fronte di una gestione della città che a molti sembra talmente negativa da non poter essere portata a supporto di questa scelta. Eppure, l’esperienza che si ha della politica è innanzitutto il linguaggio politico che viene usato. Saperlo decodificare, rendendone espliciti i meccanismi, emancipa l’elettore dal tentativo di essere coinvolto nella costruzione di un universo discorsivo inclusivo, in cui l’errore macroscopico, la furbizia e le contraddizioni, pur spesso evidenti, perdono la loro valenza reale e, venendo minimizzate, rientrano coerentemente nella costruzione di un non ben definito mondo migliore di là da venire. In questo caso, quello creato artificialmente, ad hoc da Virginia Raggi.

 

La lettura protagonista nelle biblioteche di Roma

“Leggere sempre”, un festival in diretta streaming in occasione della Giornata Mondiale del Libro, il 23 e 24 aprile.
di Maria Squarcione

Non c’è niente da fare. Le biblioteche continuano ad essere i presìdi della lettura. O almeno ad essere considerate tali, anche se a tante altre funzioni potrebbero assolvere con lo stesso successo. Ed è così che il circuito delle Biblioteche di Roma “festeggia” il suo 25mo compleanno i prossimi 23 e 24 aprile con un festival in diretta streaming dedicato alla lettura, che si intitola “Leggere sempre, in collaborazione con AIE-Associazione Italiana Editori e la partecipazione di RomaEuropaFestival.

Con questo inno alla lettura, che avrà un carattere internazionale con la partecipazione di studiosi del settore in occasione della Giornata Mondiale del Libro, si vuole sottolineare che le biblioteche sono protagoniste nel garantire quel libero accesso all’informazione, alla conoscenza e alla cultura che crea le basi di una comunità. Comunità che oggi si è allargata a livello planetario, grazie ad una tecnologia user friendly, e che rappresenta potenzialmente un ulteriore e fondamentale strumento di diffusione di un’antica abitudine che, come ci dicono le statistiche, stenta ad essere praticata dalla maggior parte delle persone del nostro Paese e della nostra città. In un’Italia dove una famiglia su dieci non ha libri in casa (ISTAT, Produzione e lettura dei libri in Italia, 2018), dove la percentuale dei lettori che leggono almeno un libro all’anno è ferma al 40,6% e dove i frequentatori di biblioteche tra i 24 e i 35 anni sono circa il 16%, mentre tra i più giovani si arriva al massimo al 36%, l’abitudine alla lettura come strumento di passatempo, svago o fonte di sapere sembra veramente ridotto. Si leggerà “su Internet”, si potrebbe pensare. Eppure, i dati sull’analfabetismo funzionale in Italia, anche tra coloro che godono di un’istruzione superiore, sono tali da non confermare questa ipotesi, come dimostrano, secondo la recente indagine INVALSI, i 33 milioni di italiani, pari al 46,1% della popolazione, che si trovano in una condizione di “illetteralismo”, cioè non riescono a decodificare un brano di prosa.

Alla luce di questo tragico bilancio, iniziative come questa assumono certamente un significato ancora più importante, anche se evidentemente non bastano e non basta lo sforzo di diffusione della lettura che pure viene fatto tramite le biblioteche. È evidente che queste fondamentali strutture culturali territoriali devono essere investite di un ruolo diverso e maggiormente significativo ed incisivo, che implichi una funzione formativa per l’apprendimento informale degli utenti. Le biblioteche, soprattutto quelle di pubblica lettura sparse sul territorio e che si rivolgono ad un’utenza indifferenziata, hanno bisogno di riorientare la propria mission verso una dimensione learning a tutto campo, che sia in grado di intercettare quella domanda di cultura inespressa che pur esiste; devono cioè diventare luoghi che abbiano la capacità di stimolare bisogni formativi e culturali laddove assenti o di coglierli e alimentarli laddove latenti, senza per questo apparire come luoghi di “nicchia”, ma rivolgendosi alla massa della popolazione, anche adulta. Questa potrà abituarsi a considerare le biblioteche come destinazioni abituali per trascorrere del tempo, se queste saranno in grado di offrire attività “ibride” (dalla fruibilità di video, alla possibilità di acquisire competenze artigianali fino alla lettura collettiva o individuale di testi, passando per la formazione sul reperimento esperto delle informazioni), che realizzino il diritto fondamentale di ogni cittadino europeo alla formazione permanente lungo tutto l’arco della vita.

La potenziale capillarità di intervento sulle motivazioni delle persone allo sviluppo della cultura personale e quindi alla lettura può e deve essere l’obiettivo di qualunque servizio culturale che funzioni: è arrivato il momento che la città di Roma, normalmente così “distratta” nei confronti dei bisogni anche più elementari dei propri cittadini, si faccia carico di una visione ampia e di un’ altrettanto ampia ed efficiente capacità di realizzazione di obiettivi culturali fondamentali per la crescita dell’intera nazione. 

 La sapienza delle biblioteche

Nella learning society contesti come le biblioteche promuovono lo scambio e lo sviluppo culturale degli individui, supportano la loro capacità di resilienza e sostengono la costruzione del senso di comunità, che rappresentano fattori indispensabili per la crescita del capitale umano e, quindi, per il progresso socioeconomico generale.

di Maria Squarcione

Dalla centralità della macchina alla centralità dell’intelligenza

Il nuovo secolo si è aperto con la presa d’atto, anche da parte delle Istituzioni europee, che l’evoluzione e la diffusione delle nuove tecnologie per l’informazione e la comunicazione hanno investito tutti i settori delle attività umane, determinando il fenomeno dell’information overload, cioè dell’enorme sviluppo dell’offerta informativa. La “società dell’informazione” ha definitivamente soppiantato la società industriale otto-novecentesca, sostituendo alla centralità della macchina, la centralità dell’intelligenza. Questa trasformazione di portata epocale, insieme alla disponibilità di tecnologie sempre più amichevoli, ha contribuito a destrutturare le fonti della conoscenza che, oggi più che mai, ha smarrito il suo centro per articolarsi non più in forma gerarchica, ma reticolare. Questo processo ha radicalmente mutato le forme di produzione, accesso e diffusione delle conoscenze, determinando una società in cui il possesso, l’organizzazione, l’uso e la trasmissione dell’informazione assumono una crescente importanza economica, politica e culturale.

La progressiva smaterializzazione delle risorse informative a favore del digitale fa emergere modelli strutturali e culturali legati all’immaterialità dei valori, delle idee e dei simboli, alla creatività, all’apprendimento, alla comunicazione, alla conoscenza, che si traducono nel ridimensionamento dei connotati materiali delle organizzazioni: mettere al centro della struttura organizzativa la qualità delle risorse umane ha coinciso da una parte con i processi di globalizzazione economica e dall’altra con il riconoscimento che, nell’era dell’informazione, ci sono troppe conoscenze e troppe fonti dalle quali apprendere per esercitare appieno il proprio diritto alla cittadinanza. Diventa così centrale la capacità di gestire l’informazione, cioè di saperla cercare, valutare, usare e creare in modo consapevole: sapersi documentare e conoscere gli strumenti che permettono di farlo mette il cittadino-utente nelle condizioni di operare scelte personali e sociali efficaci in una società complessa che richiede solide competenze, pena l’esclusione e la marginalità sociale.

Il protagonista di questa nuova “società della conoscenza” nella quale viviamo immersi è un individuo autonomo, vero soggetto della formazione permanente (Lifelong Learning), in grado di aggiornarsi costantemente, utilizzando saperi e tecnologie che sono alla base del processo di individualizzazione dei meccanismi di apprendimento, necessari per la propria sfera personale o pubblica, utili per acquisire nuove competenze di lavoro più volte nel corso della propria vita e grazie ai quali solo chi non avrà mai smesso di imparare sarà in grado di competere.

Le Istituzioni europee hanno interpretato questa transizione culturale già dal 2006, quando venne pubblicata la prima Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente”  dove si elencavano e descrivevano otto competenze-chiave per affrontare il nuovo Millennio da parte dei cittadini che, grazie alla formazione lungo tutto l’arco della vita, dovevano adattarsi «in modo flessibile a un mondo in rapido mutamento e caratterizzato da forte interconnessione». Tra queste otto abilità era compresa la competenza digitale, tra le cui specifiche vi era proprio la capacità di «cercare, raccogliere e trattare le informazioni e di usarle in modo critico e sistematico, accertandone la pertinenza e distinguendo il reale dal virtuale pur riconoscendone le correlazioni». Questo documento è stato successivamente aggiornato con la pubblicazione, nel maggio del 2018, di una nuova “Raccomandazione del Consiglio relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente” che, rispetto alla precedente, attua una forte accelerazione nella direzione dell’acquisizione, da parte dei cittadini europei, della capacità di resilienza e del pensiero critico e aggiorna le otto competenze «che consentono di partecipare pienamente alla società». Tra queste figura ancora quella digitale, che include «l’alfabetizzazione informatica e digitale, la comunicazione e la collaborazione, l’alfabetizzazione mediatica, la creazione di contenuti digitali (inclusa la programmazione), la sicurezza (compreso l’essere a proprio agio nel mondo digitale e possedere competenze relative alla cybersicurezza), le questioni legate alla proprietà intellettuale, la risoluzione di problemi e il pensiero critico». Nello stesso documento, al fine di una diffusione massiccia di queste capacità tra la cittadinanza europea, il Consiglio dell’Unione Europea raccomanda alle organizzazioni educative di adottare forme diverse e più innovative di istruzione, tese a favorire oltre all’apprendimento formale, quello non formale e quello informale, a sostegno della realizzazione personale, della salute, dell’occupabilità e dell’inclusione sociale, in una società sempre più mobile e digitale.

Un nuovo piano sociale per l’inserimento al lavoro

A fronte di questo scenario, e preso atto delle raccomandazioni europee, sarebbe auspicabile che le istituzioni locali, meglio se in sinergia con quelle nazionali, ognuna per le proprie competenze, promuovessero ed attuassero un nuovo piano sociale per l’inserimento al lavoro e l’occupabilità, che tenesse conto della interazione con una società dove il valore umano della conoscenza e del sapere è diventato il motore determinante della crescita individuale e collettiva.

Mettere insieme i temi del lavoro e dell’inclusione con la questione della formazione e dell’informazione significherebbe, tra le altre cose, esprimere la volontà di promuovere la cultura informativa a tutti i livelli, per incentivare l’aggiornamento, per esempio in favore delle piccole e medie imprese o per migliorare i servizi erogati dalla Pubblica Amministrazione. Ma sarebbe utile anche a creare una rete pubblica di sostegno formativo per l’impulso, ad esempio, all’autoimprenditorialità (come forma di welfare destinato alla valorizzazione del capitale umano e quindi alla crescita strutturale di iniziative individuali e collettive, soprattutto fra i giovani, fornendo un contenuto concreto al patto di servizio personalizzato); all’attività e all’occupazione degli over55, nell’ottica dell’invecchiamento attivo; all’inserimento socio-lavorativo degli immigrati. L’impulso politico, la sinergia istituzionale e la disponibilità di modelli e strumenti formativi all’avanguardia sono tutti elementi indispensabili ai fini di una iniziativa che favorisca le politiche attive di qualificazione e riqualificazione del mercato del lavoro e che contribuisca al governo di fenomeni come l’integrazione degli emigrati, la resilienza aziendale, la disoccupazione e l’inoccupazione.

Inoltre, il persistere in Italia e in Europa di formazioni populiste testimonia, oltre alla crisi dei partiti tradizionali, il deterioramento di una opinione pubblica stordita dall’emergenza sanitaria e dall’aggravarsi delle diseguaglianze sociali e dalla carenza di lavoro; impaurita dal fenomeno epocale dell’emigrazione e bombardata da un eccesso informativo, rispetto al quale non è più in grado di orientarsi e che quindi non riesce sempre a trasformare in una risorsa. La situazione è aggravata anche dall’assenza generalizzata di strumenti culturali considerati di base, come dimostrano le allarmanti statistiche italiane sulla diffusione massiccia dell’analfabetismo funzionale, anche fra i laureati, che contribuisce ad esasperare questo disorientamento, rendendo vasta parte della collettività meno attrezzata preda di messaggi semplicistici e spesso falsi, che non vengono riconosciuti come tali e sulla base dei quali si formano opinioni e si prendono decisioni.

Per arginare fenomeni come la “post-verità” e ulteriori derive che rischiano di alterare in modo negativo l’intero quadro politico ed istituzionale, in quanto producono un livellamento in basso disastroso e pericoloso della classe dirigente e per realizzare vera innovazione sociale, dopo la crisi pandemica, attraverso iniziative di imprenditoria sociale, di rinnovamento della P.A. e d’inserimento nel mondo del lavoro è necessario che, oltre alle agenzie formative tradizionali, le stesse forze istituzionali e politiche promuovano iniziative diffuse di vera e propria alfabetizzazione informativa (Information Literacy), come per esempio ha fatto l’ex  presidente degli USA, Barack Obama. Egli già nel 2009 ha emanato una proclamazione nazionale con la quale dichiarava ottobre di oltre dieci anni fa, il mese della consapevolezza nazionale sull’Information Literacy. Con questo atto formale il presidente Obama raccomandava la diffusione tra il popolo americano della competenza informativa, considerata una skill di base del Terzo Millennio, pena l’esclusione e la marginalità sociale; egli sottraeva così definitivamente questo tema dal chiuso delle nicchie accademiche ed educative, per farne oggetto di una grande iniziativa politica e rendendolo una delle più importanti questioni sociali del nuovo Millennio.

Il nuovo ruolo delle biblioteche

Tenendo presente queste premesse, anche in Italia le istituzioni direttamente interessate – da quelle locali come la Città Metropolitana di Roma, Roma Capitale e la Regione Lazio, a quelle nazionali come l’Agenzia per l’Italia Digitale, il Ministero dell’Istruzione, il Ministero dell’Università e della Ricerca, il Ministero della Cultura, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – potrebbero promuovere, con una efficace campagna di comunicazione, politiche formative, informative e buone pratiche sulla diffusione della cultura dell’informazione tra la popolazione, anche a fronte delle necessità conoscitive scatenate dalla pandemia, che vadano nella direzione di un coinvolgimento comune, rendendo omogeneo e sistematico uno sforzo che per ora è presente solo in forme molto marginali.

Tra le istituzioni educative che si dimostrano maggiormente flessibili e in grado di interpretare al meglio questa molteplicità di sollecitazioni emerse nella kwnoledge age di questo nostro Terzo Millennio, rivelandosi come i luoghi idonei per favorire lo sviluppo della cultura dell’informazione, ci sono le biblioteche. Nella learning society contesti come le biblioteche promuovono lo scambio  e lo sviluppo culturale degli individui, supportano la loro capacità di resilienza e sostengono la costruzione del senso di comunità, che rappresentano fattori indispensabili per la crescita del capitale umano e, quindi, per il progresso socioeconomico generale.

Esse, in modo differente e “a macchia di leopardo” a seconda delle istituzioni di riferimento e del territorio, hanno gradualmente acquisito nuove funzioni, trasformandosi in learning and teaching libraries: hanno cioè ampliato il loro tradizionale ruolo di mediazione informativa in quello di organizzazioni di accesso all’informazione e al sapere. Una “rivoluzione copernicana” che le vede trasformarsi di fatto da luoghi fisici, dove conservare la documentazione posseduta in attesa dell’eventuale richiesta da parte degli utenti, secondo il modello del just in case, in luoghi fisici, elettronici, virtuali e digitali di diffusione dell’informazione e della conoscenza ovunque dislocata e raggiungibile in tempo reale, a domanda dell’utente, secondo la logica del just in time. Si tratta cioè di quella capacità che permette di interpretare la transizione dall’attività di mediazione informativa dell’era analogica verso una dimensione che, nel contesto digitale, favorisce l’apprendimento individuale e collaborativo, per sapere non solo dove trovare un’informazione, ma anche quando e perché se ne abbia bisogno, come valutarla e come usarla e comunicarla in modo etico. Le soft skills necessarie a questo scopo – ovvero le abilità indicate dall’Unione Europea – sono l’oggetto dell’Information Literacy, cioè della competenza informativa, che talora si pratica nelle biblioteche come un servizio specialistico aggiuntivo rispetto al tradizionale reference, cioè l’assistenza documentaria personalizzata all’utente.
Da questo nuovo paradigma scaturiscono servizi innovativi, che rendono le biblioteche dei learning centre, adatti a soddisfare anche quel diritto di cittadinanza alla lifelong learning di cui gode ogni cittadino europeo. Agendo modalità formative non convenzionali, sganciate dagli ambienti didattici tradizionali, come quelle informali e non formali, suggerite dalle Istituzioni europee per ampliare l’offerta di formazione a beneficio di ciascuno, esse allargano la loro vocazione all’educazione degli utenti: nelle biblioteche si promuovono corsi ad hoc destinati a sviluppare la competenza informativa, con lo scopo di rendere più efficiente l’attività di ricerca, educando gli utenti a documentarsi, cioè a selezionare le fonti informative in funzione degli obiettivi di ricerca, a interrogare in modo esperto le risorse di rete, a valutare i risultati della ricerca e a trasformare questi ultimi in un patrimonio condivisibile di conoscenze, oltre che a soddisfare in modo efficiente il proprio bisogno informativo.

Questa pratica che educa al pensiero critico, qualora fosse diffusa in modo omogeneo e strutturale e venisse riconosciuta come un cómpito istituzionale delle biblioteche, rappresenterebbe un argine di razionalità, utile anche per fronteggiare il dilagare delle fake news, che nascono dall’idea che l’aspetto emotivo dei fatti è più importante dei fatti stessi.

Infine, questo processo di conversione delle biblioteche da “teche” a servizi informativi dinamici passa anche attraverso l’evoluzione verso un modello partecipativo, non ancora pienamente realizzato, che prevede la centralità degli utenti: secondo questo schema, essi non sono più considerati solo come destinatari “passivi” di vecchi e nuovi servizi, ma assumono un ruolo attivo che li vede potenzialmente protagonisti, fino all’eventuale co-produzione di contenuti, attraverso piattaforme informatiche, grazie alle quali possono collaborare. Gli utenti, inseriti come sono oggi in un paradigma culturale ed europeo open che riguarda sia la ricerca (Open Science), sia i dati (Open Data), sia l’accesso alle risorse di rete (Open Access), se sostenuti da organizzazioni culturali come i sistemi bibliotecari orientati alla collaborazione attiva, potrebbero esercitare anche la loro facoltà di partecipare alle attività di Citizen Science, sancita dalla Comunità Europea.

La Citizen Science è indicata come la partecipazione volontaria di scienziati non professionisti alle attività di ricerca ed innovazione, in diverse fasi del processo e a diversi livelli di impegno: dalla definizione di programmi e politiche di ricerca, alla raccolta, elaborazione e analisi dei dati e alla valutazione dei risultati della ricerca. L’impegno attivo con i cittadini e la società potenzialmente migliora la ricerca e i suoi risultati, rafforzando la fiducia della società nella scienza e nella ricerca, oltre a migliorare l’alfabetizzazione scientifica tra il pubblico e la trasparenza nei suoi confronti da parte degli scienziati.

La proposta

Dunque, per rendere concrete possibili iniziative tese alla partecipazione strategica di strutture culturali come le biblioteche alle più avanzate prospettive di crescita e di innovazione, è necessario ri-orientarne la mission, rendendole soggetti e, nello stesso tempo, destinatarie di attività di advocacy, destinate a promuovere ed interpretare una politica culturale all’avanguardia.

Gli strumenti per arrivare a questo risultato sono culturali ed organizzativi insieme: sarebbe necessario favorire tavoli comuni tra i sistemi bibliotecari delle singole amministrazioni – nel nostro caso almeno tra quelli delle Università presenti sul territorio romano, quelle statali e il circuito delle Biblioteche di Roma – intorno a progetti avanzati che riguardano i temi citati dell’Information Literacy e della Citizen Science e nello stesso tempo sarebbe auspicabile promuovere azioni di: aggiornamento professionale; progettualità per l’adozione degli strumenti formativi informali e non formali, favorendone l’uso e sperimentando le possibili pratiche formative dei social network; sviluppo delle competenze del management della conoscenza, del lavoro in team, del marketing finalizzato alla gestione dell’ampliamento dei pubblici e dell’audience; creazione di validi circuiti comunicativi; incremento di attività progettuali che coinvolgano partner europei, in modo da creare solide reti di relazioni internazionali.

Queste ed altre attività, come l’aggregazione nelle biblioteche di funzioni legate non solo alle esigenze di lettura, di aggiornamento e ricerca, ma anche a quelle manuali, artigianali, di svago e di condivisione, coerentemente con la mission, gli spazi e con i territori di riferimento, insieme alla riorganizzazione dei sistemi bibliotecari centrata sugli obiettivi culturali e sulla corretta gestione delle risorse, possono favorire la dimensione delle biblioteche come piattaforme della conoscenza in tutte le sue forme, favorendo così la ripresa culturale ed economica dopo la crisi della pandemia.