venerdì 4 dicembre 2009

Brevemente, sulla lettera di Celli

Sono convinta che una disamina lucida della situazione non possa che generare quella amarezza sfiduciata che si legge nelle pagine di Celli, ma trovo gravissimo che a pronunciarla, senza indicare alternative e fare proposte concrete, sia un uomo che occupa quel ruolo. Non dirò mai ai miei figli (22 e 17 anni) che l'unica alternativa è andarsene dall'Italia. Andassero pure a fare esperienze formative all'estero, si globalizzassero quanto vogliono, ma poi mi facessero la cortesia di tornare, rimboccarsi le maniche e dare una mano alla nazione che - sforzi individuali a parte - ha investito sulla loro formazione. Se estendiamo il modello-Calabria a tutta l'Italia (andarsene, per tornare si e no per le vacanze ed esaltare le bellezze del posto) avremmo definitivamente deciso la morte di questa nazione. Bisogna analizzare, indignarsi e criticare, ma poi combattere per il cambiamento. Questo è dignitoso. Tutto il resto è puro intellettualismo chic.

giovedì 29 ottobre 2009

Brevissimi cenni sulla Riforma-Gelmini

All'indomani della sostanziale approvazione della Riforma Gelmini, l'impressione è che il provvedimento sfiori i problemi di sostanza e colga solo alcuni dei nodi di gestione, ma nulla preveda per un cambiamento vero e proprio del sistema universitario così com'è nelle sue dinamiche di potere e rispetto all'obbiettivo di un maggiore dinamismo interno e di una maggiore osmosi con la società. Prendiamo ad esempio l'annoso tema del reclutamento: l'attribuzione delle abilitazioni a numero aperto a livello nazionale probabilmente non inciderà sul ridimensionamento del nepotismo e dello strapotere dei baroncini universitari, perchè i veri e propri "posti di lavoro", cioè le cattedre, è previsto vengano attribuiti in base a procedure pubbliche di selezione, sempre attivate dalle singole università che, quindi, continueranno a gestirne i criteri.
Nessuna traccia di assunzione di responsabilità autentica da parte dei professori responsabili di ricerche e titolari di fondi nei confronti dei propri precari, nessuna traccia dell'unico vero deterrente per una gestione economica e culturale orientata seriamente al merito: sottoporre TUTTI i docenti a periodici (anche quinquennali per gli associati, anche decennali per gli ordinari) step di valutazione sulla qualità della ricerca e della didattica prodotta. Controllo in grado di mettere in discussione il pane quotidiano: come è noto, questo rimetterebbe in moto non solo una competizione sana all'interno dell'università, che determinerebbe un giovevole ricasco su tutta la filiera della ricerca (se si vuole un buon risultato, bisogna circondarsi di bravi ricercatori, non di yes-man/woman, generalmente mediocri, che non "facciano ombra" e che non siano in grado di attentare nè all'autorità, nè al ruolo del docente di riferimento), ma rappresenterebbe anche il volano per un rapporto più dinamico con il mondo produttivo delle aziende - non solo italiane - e, perchè no, di una pubblica amministrazione di qualità. Insomma, l'università rischierebbe di essere nuovamente non solo luogo di eccellenza culturale, ma addirittura di rientrare nel "ciclo produttivo" della società, fornendo personale qualificato per tutte le esigenze produttive. Certo, questo implicherebbe un grande sforzo da parte dei docenti e delle autorità accademiche tutte che dovrebbero, a tutti i livelli e in ogni disciplina, creare scuole ben riconoscibili, delle quali farsi carico e assumersene pienamente la responsabilità, nel quadro di un ricambio generazionale più rapido, attraverso la sostanziale abolizione del meccanismo del concorso, a favore di un reclutamento personalizzato e mirato al curriculum del candidato e all'obbiettivo della ricerca.
Con questa riforma, indirettamente i docenti di ruolo (associati e ordinari) sono spinti a risolvere la situazione dei propri ricercatori, che sono gli unici che diventano precari. Ad un certo momento o si attiva la famosa procedura pubblica per loro o niente. Chi decide però è sempre tranquillo al prorio posto e l'ipotesi è che eserciti, sui ruoli di entrata nell'accademia, un intollerabile strapotere, proprio per il semplice motivo che "non rischia nulla"...
Niente poi si dice sui famosi criteri di merito: si assimilano le discipline umanistiche ai metodi di quelle scientifiche, ad esempio? Si fa qualcosa - tanto per entrare nel merito - per impedire che, soprattutto in ambito umanistico, proliferino fantomatiche "riviste di dipartimento", fatte apposta per far pubblicare i soliti quattro gatti conosciuti che se non scrivessero sul periodico che editano loro stessi non verrebbero letti mai da nessuno, perchè non passerebbero mai l'esame di referì internazionali? E' possibile immaginare che gli articoli scientifici anche in ambito umanistico possano "fare titolo" solo se pubblicati in inglese o, comunque, su riviste con impact factor? Cosa si fa, oltre a semplificare il numero delle facoltà, per favorire la penetrazione della cultura scientifica in Italia?
Mi sembra che queste, che sono solo alcune tra le problematiche che concretamente vanno ad incidere sulla famosa qualità e sull'altrettanto famoso merito, non vengano minimamente affrontate. Ma attendiamo l'applicazione per verificarne fino in fondo gli effetti....

martedì 13 ottobre 2009

Qualche idea per l'Italia che verrà (1b)

Data per scontata l'ingenuità in base alla quale obbiettivo politico condiviso sia quello di puntare ad una scuola pubblica di grande livello, nel quadro della circostanza per la quale le tasse vale la pena pagarle solo per avere un sistema scolastico e sanitario di qualità (tradotto: le risorse pubbliche vengano restituite a servizi pubblici di primaria importanza, gestiti al massimo livello), la prima e più importante azione preliminare è quella di un'analisi seria dei bisogni formativi, in funzione delle possibilità di occupazione a livello nazionale e delle prospettive di crescita più generale del paese sul piano internazionale. La programmazione di quanti "umanisti" o di quanti "tecnici" debbano uscire dalle nostre scuole e con quale formazione necessaria rispetto alle necessità del cosiddetto mercato mi sembra l'abc. Ammesso che tutto questo si faccia nella prospettiva della qualità, uno dei primi nodi da affrontare è proprio quello dei formatori.
Fondamentale è la riforma delle modalità di reclutamento. Parola d'ordine: aboliti i concorsi.
Per i professori delle cosiddette scuole dell'obbligo - naturalmente tutti laureati con la laurea specialistica e i docenti delle materne e delle elementari o con doppia laurea (obbligatoria quella in pedagogia) o con percorso formativo a forte impronta pedagogica ad hoc - l'accesso dovrebbe avvenire -dopo la laurea o le lauree - vincendo un dottorato "in didattica", cioè una scuola di specializzazione, che preveda un percorso teorico e tecnico-pratico che includa stage e affiancamenti didattici nelle scuole pubbliche e formazione sui modelli più avanzati delle teorie glottodidattiche.
Va da sè che l'accesso a questa specializzazione dovrebbe essere permesso dopo un esame "progettuale", sul modello dei dottorati di ricerca, che tenga conto del curriculum formativo universitario e programmato in ragione delle esigenze recettive delle scuole pubbliche, parificate e private. E' necessario dunque il solito, elementare data base PUBBLICO della presenza sul territorio delle realtà scolastiche; questo modello avrebbe il vantaggio di favorire la solita trasparenza, la solita selezione sul merito - cioè sul percorso - il solito stimolo alla motivazione piuttosto che al clientelismo.
Per quanto riguarda l'accesso alla docenza universitaria, invece, sarebbe utile mutuare da altri paesi - visto che le università possono darsi lo statuto di fondazioni con un semplice voto unanime del senato accademico, come già accade in alcune realtà estere - il sistema fondato sulla responsabilità del singolo. E' chiaro che ogni aspirante ricercatore deve poter fare sia un percorso interno alle strutture di ricerca universitarie - ad esempio secondo il modello attuale della facoltà di medicina - o proporsi come autentico outsider che accede ai fondi di ricerca attribuiti ad un team sulla "parola" del docente di riferimento. Lo stesso docente che non farà un concorso una sola volta nella vita, ma che sarà sottoposto ogni quinquennio ad un riesame di idoneità e che quindi avrà bisogno di un team sempre attivo e del quale si assumerà pienamente la responsabilità di "assunzione".

sabato 10 ottobre 2009

Qualche idea per l'Italia che verrà (1a)

Uno dei mali riconosciuti del nostro sistema scolastico - e non solo di questo, ma limitiamoci a questo - è la sua inadeguatezza rispetto alle trasformazioni della società. E non è un fatto di oggi - cioè legato alla cosiddetta velocità dell'information society - ma un limite tradizionale: le manifestazioni di piazza del 1968 dimostravano la stessa cosa. Ovvero che la scuola, contravvenendo alla sua mission naturale - cioè quella di accompagnare i giovani verso una crescita consapevole, fornendo loro il maggior numero e una buona qualità di strumenti culturali - si poneva come una sorta di baluardo del tradizionalismo presente nei ceti più conservatori, al fine di formare quella e solo quella classe dirigente, tarata sulla selezione economica e sulla conferma della provenienza sociale. Lo scossone del '68 ha contribuito ad abbattere questa visione puramente classista, favorendo la scolarizzazione di massa, garanzia di uno dei più elementari diritti di cittadinanza. Dovendo necessariamente schematizzare un procedimento molto complesso, posso solo ricordare che alcune scelte politiche scellerate e il clima generale del paese hanno tradotto il sacrosanto principio della garanzia per tutti delle stesse possibilità di partenza - cioè l'accesso e la permanenza almeno nel mondo scolastico pubblico, unica possibilità di formazione per milioni di italiani, in un'epoca ancora post-bellica, durante la quale questa possibilità non era del tutto scontata - in un processo di depauperamento della qualità scolastica pubblica, cioè nella garanzia a tutti di una formazione "a buon mercato", che ha spesso escluso dai principi e dalla pratica sia la competizione, che la selezione sul merito. Naturalmente la scuola italiana non è stata solo questo, affatto. Ma il risultato, negli anni, è stato l'affermazione di una progressiva semplificazione nel senso della superficialità e del nozionismo, che hanno escluso dall'orizzonte formativo una delle più grandi conquiste della formazione pubblica: il principio di uno studio critico, bene prezioso che solo garantisce la creazione di una coscienza laica.
L'assenza di questa dimensione oggi non riguarda più tematiche di settore, interne al mondo della scuola, ma mostra tutto il suo limite di fronte ai fenomeni di immigrazione massiccia o all'emergenza dei cosiddetti nuovi diritti.
Questo processo di livellamento culturale insieme al proliferare di alcune agenzie formative - come la televisione - non più "controllabili" secondo una logica microscopica e alla rapida trasformazione di altre - come la famiglia - dimostra di non essere organico a sostenere la competizione culturale, tecnologica e scientifica del pianeta globalizzato. Oltre a favorire un modello di omologazione che ha le sue ricadute sia sul fronte sociale - la società italiana è tra le più "ingessate" d'Europa - che su quello più propriamente politico, laddove la manipolazione di coscienze non avvedute è diventata pratica consolidata.
Nonostante le macroscopiche contraddizioni alle quali ho così superficialmente accennato, uno dei mali strutturali del nostro sistema scolastico - il reclutamento dei formatori - risponde ancora oggi a logiche eccentriche: ai professori, nessuno insegna ad insegnare, sottoposti come sono a gavette e precariati di decenni e a concorsi la cui valutazione è lasciata al libero arbitrio degli esaminatori. Nessuna programmazione rispetto ai bisogni formativi (cioè nessuna analisi dei medesimi), ma solo in funzione economica; nessun percorso guidato, nessuna attenzione specifica per la loro formazione, alcuni privilegi insopportabili per la coscienza collettiva hanno prodotto un progressivo discredito sociale che oggi si manifesta in tutta la sua gravità. La soluzione spesso è stata peggiore del male: per far funzionare la scuola, si è ricorsi ad un superato ideale di serietà (voto in condotta, maestro prevalente, ad esempio) o a un'immissione massiccia quanto impropria di modernismo (programmi che privilegiano il contemporaneo, relegando lo studio del "passato" alle prime classi; computer per tutti - era ora - ma su banchi e in aule fatiscenti). Tutti passi disorganici. Perchè, a mio avviso, la scuola viene affrontata ancora come un segmento staccato dal resto della società. L'autonomia scolastica e la trasformazione delle Università in Fondazioni - unico elemento strutturale di autentica modernità - rischia di tradursi in una forma di anarchia e autarchia dell'offerta formativa, funzionale come può diventare alla creazione di "feudi", piuttosto che in un'occasione di crescita, in assenza di contrappesi istituzionali significativi e di una riforma del sistema formativo nel suo insieme, finalizzato alla qualità piuttosto che al risparmio.
Fin qui la pars destruens. Ora proviamo a fare proposte.

mercoledì 23 settembre 2009

sulla laicità dichiarata e non praticata. e altre storie

L'occasione di cronaca per una riflessione sulla laicità è una delle più atroci: la morte in battaglia di sei soldati italiani in Afghanistan. Dico subito che personalmente ho capito molto di più su tutta la questione afghana ascoltando l'intervista radiofonica fatta dai conduttori di una trasmissione abbastanza "leggera" come "Caterpillar"ad un generale di corpo d'armata impegnato là sul campo, che non leggendo la stampa nazionale che, pure, tengo abbastanza sotto controllo.
Dico questo per entrare subito nel merito della questione: è di questi giorni la polemica nazionale contro quei dirigenti scolastici che non hanno voluto rispettare il fatidico minuto di silenzio, opponendo - cito a memoria - l'argomento secondo il quale le missioni di pace si fanno inviando insegnanti e dottori e non militari. E la polemica è stata arricchita dalla costatazione che i soldati, la morte, ce l'hanno per statuto, nelle loro regole d'ingaggio, insomma fa parte del loro lavoro (quindi se muoiono non stupiamoci tanto e non facciamo tante storie...); mentre invece i lavoratori, gli operai che cadono dalle impalcature, quelli no, per loro la morte non è prevista mentre lavorano, quindi, caso mai, commemoriamo loro e non i soldati.
A parte la valutazione dell'arido cinismo sul piano umano che questa posizione esprime, ritengo che aderire a questa tesi e praticarla rappresenti un'occasione politica mancata.
Se la cifra dell'impegno politico di SeL è rappresentata dalla laicità, non credo che opporre un ideologico antiamericanismo e un antimilitarismo, fermi agli anni 70, serva a qualcosa, tantomeno a fermare la guerra. Tantomeno a capirla. Tantomeno a costruire una cultura politica nuova che interpreti la complessità del mondo del 2000 e ne restituisca un'idea di società rinnovata.
Se veramente si voleva cogliere l'opportunità politica, soprattutto da parte di educatori impegnati, oltre al minuto di silenzio, quale manifestazione tangibile e laica di un cordoglio nazionale (o anche il cordoglio è un sentimento guerrafondaio e perciò politicamente scorretto? e allora lo è anche per le morti bianche...), si sarebbe potuto, nello stesso momento, nello stesso giorno, farsi promotori di una grande iniziativa pubblica di informazione nelle scuole sulle ragioni della guerra in Afghanistan, sulle ragioni della nostra presenza, raccogliendo rassegne stampa, riascoltando nelle aule interviste televisive e radiofoniche sull'argomento, invitando nelle scuole tutti gli attori di questa vicenda, nessuno escluso. Insomma dando voce a tutte le voci, militari compresi. Si sarebbe promossa così non una visibilità politica personale che trasforma tutto questo in politicismo strumentale e che fa la differenza tra chi la politica la vuole praticare e chi la vuole occupare, ma una solida campagna di opinione; un' informazione il più ampia e plurale possibile; un ritorno della politica tra i banchi di scuola non in modo ideologico, non per formare "pericolosi terroristi", ma nella cifra dell'unità nazionale - visto che sono in molti a metterla in discussione, a cominciare dalla Lega - e della costruzione di quella che una volta si definiva "coscienza critica", attraverso l'educazione permanente al confronto civile e al ragionamento libero e argomentato.
Nessuno si sarebbe potuto opporre, Gelmini compresa, ad una campagna lanciata a livello romano e/o nazionale di questa portata. Si sarebbe stati protagonisti della restituzione di un senso laico del valore della vita e dell'impegno civile che anche i militari italiani là svolgono. E sul fronte interno di SeL si sarebbe potuto cominciare da qui per elaborare una cultura politica condivisa dalle sue varie anime, oltre a riorganizzare un quasi defunto movimento studentesco.
Questo per quanto riguarda la politica "alta". Invece, volendo esercitare solo della bieca e "sporca" propaganda (anche grazie alla quale qualcuno governa questo paese da quindici anni), l'occasione perduta è, se possibile, ancora più grave.
Noto che il minuto di silenzio è una delle poche manifestazioni laiche di cordoglio alle quali abbiamo assistito. Per il resto abbiamo solo visto la parata istituzionale - piuttosto commossa in verità - delle "più alte cariche dello Stato" nella chiesa romana di San Paolo Fuori le Mura. Bene. Se si volesse fare una battaglia "spicciola" sulla laicità - visto che comunque la si fa sul minuto di silenzio - allora si sarebbe potuto strutturare la critica sul fatto che i "solenni funerali di stato" si siano celebrati in forma religiosa e non laica. Personalmente trovo veramente inopportuno ed offensivo nei confronti della Repubblica italiana che, per manifestare gioia o dolore a carattere nazionale, ai suoi rappresentanti sembri normale farlo in chiesa. Individuiamo i luoghi laici di questa Nazione per i suoi riti laici (il Vittoriano? Porta Pia?) e commemoriamo là i nostri morti. Tutti. Tutti i nostri morti, anche gli operai che cadono dalle impalcature; anche chi però la morte la pratica per professione. Chi vuole partecipare, partecipi: i vescovi? i familiari delle vittime? Siano i benvenuti. Se poi questi hanno voglia di funerali cattolici, nessun problema. Ma in forma rigorosamente privata, please.
Così come, sempre sul tema "basso", promuoverei una revisione e una puntualizzazione nel segno della differenza tra gli stessi riti, a seconda se declinati in forma religiosa o laica, prendendo spunto, perchè no, dalla curiosa espressione del cardinale Bagnasco che, alla plenaria della CEI, ha parlato di "nostra Costituzione". Bene, ha ammesso che la Costituzione italiana è anche la sua? Meglio così. Siccome è certo - vedi art. 8 - che la nostra Costituzione è laica, allora non ci dovrebbe essere nessun problema, nemmeno per i vertici della Chiesa, a condividere, per esempio, la revisione delle forme e delle modalità del matrimonio civile, oggi così drammaticamente simile a quello religioso, nel quadro delle tematiche legate alle unioni civili. Tutto questo e molto altro potrebbe essere praticabile nel segno della creazione di una cultura politica coerente e diffusa che caratterizzi la donna e l'uomo del Duemila, una donna e un uomo in relazione in una società complessa, di cui SeL potrebbe farsi, ad un tempo, promotore e interprete.

martedì 21 luglio 2009

...e ne ho tratto un articolo che ha girato un po': SeL o del progressismo umanista

Come spesso accade nelle fasi di fondazione o di ri-fondazione, i progetti, anche se nascono in un contesto ridotto, assumono su di sé grandi ambizioni. Il caso di SeL non fa eccezione: si avverte non solo l'esigenza di costruire un partito, bensì l'intero àmbito della sinistra, con tutto il suo corredo di valori e di strutture organizzative. Da qui la nota "querelle politicista", relativa al “partito si”, i cui sostenitori sono prevalentemente preoccupati di non disperdere il voto espresso da un milione circa di italiani, / “partito no”, costituito dai più cauti e soprattutto da quelli che un partito già ce l’hanno e hanno pensato di aderire principalmente ad un progetto e sono più orientati, per il momento, alla federazione.
Rebus sic stantibus, queste due posizioni, che appaiono così distanti, hanno in realtà un elemento in comune: una sostanziale disattenzione nei confronti dei contenuti, tutte concentrate come sono sulla difesa dei propri apparati, sulla difesa dei propri metodi di costruzione di apparati; fattore che rivela la solita modalità ottocentesca di fare politica, un interesse tutto rivolto al proprio ombelico e una sostanziale posizione conservatrice.
Io invece sono progressista. Ero progressista quando a 21 anni ho votato per la prima volta a favore del referendum sull'aborto; sono stata molto progressista qualche anno fa quando ho partecipato all'elaborazione dei temi della Rosa nel Pugno e alla declinazione nella pratica politica di tutto quel progetto che ha dettato l'agenda di quella stagione. Sono stata molto progressista con tutti quei socialisti italiani, che sono ormai da tempo tra le pochissime forze che in Italia si fanno baluardo di una laicità intesa sia come proposta di contenuti - che da quel momento in poi sono stati definitivamente acquisiti dal dibattito politico italiano - sia come acquisizione di un metodo, di una “lente” attraverso la quale leggere la società italiana ed europea.
SeL ha dunque un compito analogo: proporre un'idea di società e avviare una concreta azione politica. Secondo un metodo "corsaro" sostengono alcuni: incursioni rapide sui temi dell'attualità con una chiara ed intellegibile presa di posizione. Questo procedimento “random”, però, almeno in questa fase, non è organico né alla definizione di uno stile - si riuscirebbe solo a diventare la brutta copia di Di Pietro, che è tutto dire... – né alla definizione di un’identità chiara, con la quale gli elettori di un partito hanno sempre bisogno di entrare in relazione e che “serve” per mantenere sempre vivo il senso di appartenenza.
Dunque, per attivare la dimensione della referenza col proprio elettorato, SeL dovrebbe partire dalla elaborazione delle forme di attuazione dell'art.49 della Costituzione repubblicana, che così recita: “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Riorientare nella pratica politica l’art. 49 darebbe sostanza di significato alle ragioni di quelli del partito-si-qui-ora-e-subito, perché li metterebbe di fronte alla concretezza di individuare le forme di questo partito: quali le regole, quale il sentire condiviso, piuttosto che l’adesione passiva (e forse interessata) a un qualche noto pacchetto pre-confezionato di metodi e strutture. Inoltre permetterebbe a tutti incursioni sulla pratica democratica così come si declina oggi in Italia, dal funzionamento interno dei partiti, ai criteri di selezione della classe dirigente, al tema elettorale delle preferenze, giù giù fino al pacchetto-sicurezza, all'immigrazione e alla dimensione di cittadinanza. Insomma assumere questo tema come centrale per la propria battaglia politica, significherebbe individuare una cornice, credibile ed importante, nella quale inscrivere tutte le questioni di strettissima attualità alle quali mi sono riferita e anche altre, che hanno come denominatore comune la costruzione di una nuova pratica democratica, rendendo chiaro agli elettori lo stile e l’identità di questa nuova formazione.
Significherebbe rappresentare la narrazione di un'idea di società. «Berlusconi ha vinto prima di tutto nella dimensione onirica», dice Vendola. E’ parzialmente vero. E' stato capace anche di entrare nei "sogni" degli italiani, tramite la costruzione di un frame narrativo che va dall' "unto del signore" al "presidente operaio". Oggi alla sinistra manca proprio questo: la costruzione di una cornice narrativa comprensibile e interessante per gli elettori che, partendo dalle modalità di attuazione della democrazia oggi in Italia, può inscriversi a buon diritto in quel "progressismo umanista" che mette al centro della propria attenzione non il "singolo individuo", non la "gente", ma la "persona in relazione”, insomma il “cittadino”.
Avere nel proprio simbolo le parole "sinistra" e "libertà" non emancipa dalla necessità di declinare a livello di progetto politico questi termini. Anzi. Prevede una maggiore assunzione di responsabilità, visto che sono parole che pesano, cariche di significato e di pregnanza politica ed etica come sono. Bisogna dire e raccontare cosa significa oggi, per l'Uomo del Duemila, "sinistra" e "libertà". Quando si farà, si sarà proposta un'idea di società e con questa e con le sue concrete pratiche democratiche si potrà andare davanti agli elettori e chiedere loro il voto.

venerdì 17 luglio 2009

Ieri mi sono espressa così davanti ad una nutrita platea di SeL....

Come spesso accade nelle fasi di fondazione o di ri-fondazione i progetti, anche se nascono in un ambito ridotto, assumono su di sè grandi ambizioni. Il caso di SeL non fa eccezione: si avverte non solo l'esigenza di costruire un partito, bensì l'intero ambito della sinistra, con tutto il suo corredo di valori e di strutture organizzative.
Da qui la nota "querelle politicista" relativa al partito si -qui-e-ora-perchè-altrimenti-disperdiamo-il-voto-di-un-milione-di-italiani / partito no -perchè-noi-il-partito-ce-l'abbiamo-e-abbiamo-aderito-ad-un-progetto-quindi-adesso-andiamo-avanti-con-la-federazione-poi-si-vedrà.
Queste due posizioni così distanti hanno in realtà un elmento in comune: una sostanziale disattenzione nei confronti dei contenuti, tutte concentrate come sono sulla difesa dei propri apparati, sulla difesa dei propri metodi di costruzione di apparati. Questo rivela la solita modalità ottocentesca di fare politica, un interesse tutto rivolto al proprio ombelico e una sostanziale posizione conservatrice.
Io invece sono progressista. Ero progressista quando a 21 anni ho votato per la prima volta a favore del referendum sull'aborto, sono stata molto progressista qualche anno fa quando ho partecipato all'elaborazione dei temi della Rosa nel Pugno e a tutto quel progetto politico che ha dettato l'agenda di quella stagione. Vorrei infatti ricordare a tutti che i socialisti italiani non sono solo quelli di Craxi, ma sono ormai da tempo tra le pochissime forze che in Italia si fanno baluardo di una laicità intesa sia come proposta di contenuti - che da quel momento in poi sono stati definitivamente acquisiti dal dibattito politico italiano - sia come metodo, lente attraverso la quale leggere la società italiana ed europea.
SeL ha dunque un compito analogo: proporre un'idea di società e attuare una concreta azione politica. Secondo un metodo "corsaro" sostengono alcuni: incursioni rapide sui temi dell'attualità con una chiara ed intellegibile presa di posizione. Mi dissocio da questo metodo random sia per motivi di stile - si riuscirebbe solo a diventare la brutta copia di Di Pietro, che è tutto dire... - sia per motivi sostanziali - non si riuscirebbe a proporre una identità chiara agli elettori - .
Dunque SeL deve partire dalla elaborazione delle forme di attuazione dell'art.49 della Costituzione. Questo darebbe sostanza di significato a quelli del prtito si-qui-ora-e-subito perchè li metterebbe di fronte a come fare questo partito, con quali regole e con quale sentire condiviso, piuttosto che con qualche pacchetto pre-confezionato di metodi e strutture. Inoltre permetterebbe a tutti incursioni sulla pratica democratica così com'è oggi in Italia, dal funzionamento interno dei partiti, ai criteri di selezione della classe dirigente, al tema elettorale delle preferenze, giù giù fino al pacchetto-sicurezza, all'immigrazione e all'idea e alla pratica di cittadinanza.
Come dice Vendola "la democrazia non è un fatto procedurale". Bene. Riorientare l'rt. 49 significa rappresentare la narrazione di un'idea di società. "Berlusconi ha vinto prima di tutto nella dimensione onirica" dice sempre Vendola. Vero. E' stato capace anche di entrare nei "sogni" degli italiani tramite la costruzione di un frame narrativo che va dall' "unto del signore" al "presidente operaio". Oggi alla sinistra manca proprio questo: la costruzione di una cornice narrativa comprensibile e interessante per gli elettori che, partendo dalle modalità di attuazione della democrazia oggi in Italia, può inscriversi a buon diritto in quel "progressismo umanista" che mette al centro della propria attenzione non il "singolo individuo", non la "gente", ma la "persona in relazione", il "cittadino".
Avere nel proprio simbolo le parole "sinistra" e "libertà" non emancipa dalla necessità di declinare a livello di progetto politico questi termini...Non è che siccome si sono pronunciate quelle parole, "ci siamo capiti"...Bisogna dire e raccontare cosa significa oggi, per l'Uomo del Duemila, "sinistra" e "libertà". Quando si farà, si sarà proposta un'idea di società e con questa e con le sue concrete pratiche democratiche si potrà andare davanti agli elettori e chiedere il loro voto.

mercoledì 3 giugno 2009

Vendola...mon amour (ovvero "In onore di un leader del progressismo umanista")

Che dire di un politico raffinato e intelligente, che si esprime con questi termini e con questi pensieri....che forse ha sbagliato a sottoporsi alla "conta" ora. Con che autorevolezza governerà in Puglia, qualora non dovesse raggiungere e superare il 4%? Rischi del mestiere si dirà. Ma Vendola merita di più credo del rischio che corre...sentiamolo, a memoria, in alcuni stralci della conferenza stampa di ieri sera:
"La sinistra non può più vivere i simboli come feticci"; "si è consumato un grande disincanto tra l'elettorato di sinistra"; "il comunismo per me (...) ha significato violentare le mie timidezze, le mie paure, (...) fiutare l'odore della speranza"; "(...) cambio perchè nella mia storia non ci sono tutte le chiavi per leggere l'oggi"; "la cultura del cambiamento (prevede) guardare il creato, il mondo vivente; (ha comportato) la cultura della differenza di genere (che) ha scompaginato la grammatica dell'ipocrisia maschilista"; "Berlusconi ha vinto innanzitutto nella dimensione onirica"; "è tornata l'Italia che i poveri cristi li mette in croce"; "la destra aderisce come una panciera all'Italia di oggi"; "la retorica ha sostituito del tutto l'opzione dell'alternativa"; "bisogna avere un cuore antico e uno sguardo moderno". E ho detto tutto, diceva Totò...

lunedì 11 maggio 2009

Sulla comunicazione politica e dintorni (3)

3)- Facciamo invece un ragionamento molto critico - declinandolo eventualmente anche come tema di campagna elettorale - nei confronti di quell'assurdo manifesto pubblicitario del PD, segno inequivocabile dell'ineffabile spocchia radical-chic dei cosiddetti democratici.
Proviamo ad analizzarlo. Fondo bianco, che fa chiarezza, sul quale è rappresentata una piccola, dico piccola folla di cittadini (uomini e donne di tutte le età) che spingono a fatica, con molta fatica, fuori dal limite del cartellone, parole negative come "povertà" e "disoccupazione", che non si leggono integralmente o tirano dentro l'area del cartellone parole positive come "futuro". Sotto l'immagine, uno slogan: più forti noi, più forti voi.
Possibile decodifica: c'è uno sparuto gruppetto di persone, non molte (quindi poche, quindi la solita elite. Il messaggio è già elitario, teso a circoscrivere l'elettorato del PD, attivando un possibile rispecchiamento tra il partito e il suo elettore e contribuendo così a definirne la fisionomia) che spinge con molta fatica (loro spingono, a fatica, tanta fatica) un messaggio molto poco chiaro. Si tratta innanzitutto della personificazione di parole - concetto di per sè già molto difficile da tematizzare - le quali rimandano a valori generali - e anche questo è complicato - ma che soprattutto non si leggono integralmente, che rappresenta un ulteriore fattore di complicazione e di "selezione" tra gli elettori. Ma lo slogan contraddice il messaggio dell'immagine, esplicitando una "distanza" anche tra il partito e il suo elettorato: quell'insistere tra "noi" e "voi" segnala, semioticamente, quel debrayage, quella distanza tra chi pronuncia l'enunciazione (cioè tra l'elite del partito che attua il discorso politico implicito nel cartellone pubblicitario, i "noi") e chi la riceve (evidentemente i "voi", rappresentati da quei pochi poveracci che "spingono" per il miglioramento della società e ai quali è anche visivamente demandato tutto lo sforzo che questo obiettivo implica).
Vendola fa bene a tener d'occhio, come ha dichiarato, l'evoluzione del PD. Evidentemente però il PD, per diventare davvero un interlocutore credibile, non solo deve liberarsi dal suo fardello clericale, ma essere disponibile ad un percorso politico ed etico che lo maturi nella direzione dell'approdo ad una inequivocabile sponda di laicità.
P.S.: consiglio gratuito al PD per un'alternativa di messaggio pubblicitario. Fondo bianco, grande scritta rossa centrale: SCUSATE. In verde, sopra, più piccolo: Rivolto a tutti gli italiani. In verde, sotto alla parola scusate: RICOMINCIAMO DA CAPO.

Sulla comunicazione politica e dintorni (2)

2)- Attenzione a non liquidare lo slogan del "voto utile" come un retaggio veltroniano e perciò stesso perdente. Il concetto di "utile" ha un appeal cognitvo e concettuale molto forte. Concettualmente, l'idea di utilità è molto "politica", soprattutto in questa epoca cosiddetta post-ideologica, dove il pragmatismo dei programmi ha scalzato senza appello la teoria delle ideologie; inoltre, l' "utile", nella tradizione italiana, viene da lontano (Orazio, Ars Poetica, 343: "omne tulit punctum qui miscuit utile dulci"- "raggiunge in pieno lo scopo chi unisce l'utile al dolce") e soprattutto è svincolato dall'idea di un becero utilitarismo, per essere collegato invece al "dolce". Cognitivamente quindi il richiamo al “voto utile” risente di questa felice connessione semantica originaria tra le categorie dell’ “utile” e del “giovamento” e quella della “piacevolezza”, secondo la definizione di un’endiadi, paradigmatica del rapporto tra l’elettore e il suo leader.
Certamente il riferimento al voto utile è segno di una mancanza di idee da parte di Franceschini e del suo ideale collegamento alla politica di Veltroni, ma il potre dello slogan non è messo in discussione.

Sulla comuniazione politica e dintorni (1)

1)- Nicki Vendola cerca un lessico nuovo. Mi compiaccio. Era ora che comparisse un leader politico che non si vergogna di accedere ad un discorso politico evidentemente più sofisticato del becero populismo utilizzato dai più, anche a sinistra e che non ammicca al facile pragmatismo imperante di questa odierna politica "del fare", che evidentemente è opposta alla politica "del prima pensare e poi fare".
Chi parla bene pensa bene. E chi ben inizia è già a metà dell'opera...allora cominciamo ad abbandonare la parola "sinistra" a favore della parola "progressismo", più inclusiva e più europea. Abbandoniamo anche questa suicida gara per la riappropriazione della parola "libertà", restituendola al patrimonio collettivo di una democrazia avanzata ed adulta, evitando così di farne un tecnicismo del lessico politico, in questo senso ormai di altri; Lakoff ci insegna di "non pensare all'elefante". Ha ragione e quindi non ci pensiamo. Anche perchè gli italiani non stanno tutti i giorni a ragionare sullo spessore semantico della parola "libertà" e ad arrovellarsi su "a chi appartiene". La riflessione politica metalinguistica che Vendola ha avviato non può essere contenuto, oggetto di comunicazione politica, ma strumento a priori di forme di comunicazione more impressive. Quindi invece di "sinistra e libertà", meglio "italiani progressiti", sigla nella quale vengono direttamente chiamati in causa i destinatari del messaggio, senza creazione di frame allusivi come "partito"(democratico), "casa" (delle libertà), "Italia" (dei valori) o, ancor peggio, "rifondazione" (di che? di un ideale del Novecento...figuriamoci) o "lista anticapistalista" (facciamo un sondaggio e verifichiamo quanti italiani conoscono il significato della parola "capitalismo"). Questo significa smetterla di parlare al proprio ombelico ed aprirsi alla nazione, parlare a tutti, nessuno escluso (che è il motivo per cui si fa politica, altrimenti ci si rivolga all'associazionismo), attivando, con due sole parole, meccanismi di avvicinamento - semioticamente, "embrayage attanziale" - a tutto l'elettorato, in modo trasversale, escludendo evidentemente i soli conservatori, di cui peraltro la cosiddetta sinistra è piena.... (Già, anche perchè anch'io mi pongo l'obiettivo del 51%. E spero anche Vendola, quando parla della creazione di un partito nuovo). Il recente esempio di Fini dovrebbe far capire a tutti che questa ricerca del "nuovo linguaggio" è la frontiera attuale dell'accreditamento politico. Noi "di sinistra", evidentemente, possediamo il lessico della laicità e quindi i temi della bioetica, dei diritti civili, del mainstreaming e della "cultura", intesa nei termini più avanzati, europei, della battaglia per la lifelong learning, per la scuola pubblica, per la ricerca scientifica, per lo svilppo e la tutela dei beni e dei servizi sociali e culturali, delle strategie per la tutela dell'ambiente e per lo sviluppo dell'energia alternativa e sostenibile.

martedì 17 marzo 2009

La politica ai tempi di Sinistra e Libertà

Mi alzo - quasi - dal mio letto di dolore et voilat...mi ritrovo militante di Sinistra e Libertà. Certo questi socialisti non li si può lasciare soli un attimo - penso - che pur di far eleggere qualcuno a Bruxelles sarebbero capaci delle più improbabili alleanze...Passi per Sinistra Democratica, passi per i "vendoliani", ma certo, i Verdi, i Verdi italiani, il peggior esempio d'Europa...beh - penso - in fondo meglio i Verdi della Francescato che dell'orrido Pecoraro Scanio...Questi i pensieri che si affollavano nella mia mente all'indomani della mia lenta e graduale ripresa...
L'inizio narrativo di questa riflessione in realtà cela il desiderio di circoscrivere scherzosamente le evidenti contraddittorietà dell'ennesimo "cartello elettorale", con il quale i socialisti si apprestano ad affrontare la prossima tornata elettorale. Contraddittorietà evidenti che consistono nel fatto di avere davvero poco in comune con questi post-comunisti mezzo pentiti e mezzo no, che sfoggiano con grande sussiego personaggi del calibro di Sansonetti - tanto per fare un nome e neanche il peggiore - che esce dritto dritto dagli anni '70 e si ritrova catapultato nel ventunesimo secolo che non capisce e che quindi non accetta...un vero dinosauro insomma, che non vedo proprio come possa almeno concepire una forza moderna e progressista - ovvero laica e libertaria - al di fuori del suo schematismo ideologico. E' questa impostazione di fondo della maggior parte delle forze che costituiscono questa alleanza che ha impedito di trasformarla in un vero laboratorio politico, come è stata, anche se per breve periodo, la recente esperienza della rosa nel pugno. Personalmente non credo di avere più elementi di contatto con i radicali piuttosto che con Vendola; anzi. Ma in questa occasione prima si è cercata l'alleanza per motivi elettorali e poi eventuali identità; procedimento che niente ha a che vedere con un progetto politico, ma molto ha a che fare con la ricerca delle solite fortune personali di quei pochissimi dirigenti - e delle rispettive segreterie - che forse ce la faranno.
Detto questo, però, come militante, mi dichiaro assolutamente d'accordo con questa scelta obbligata, perchè la ritengo una scelta razionale, ovvero l'unica possibile, dato il panorama attuale. Se sia giusta o meno lo decideranno gli elettori; se avrà un futuro o meno, almeno come possibile grimaldello nei confronti di un PD che speriamo si liberi, a ottobre, del suo fardello clericale, dipenderà davvero dalla nostra - di tutti dico, non solo dei socialisti - capacità di individuare una sintonia interna ed elaborare un progetto, oltre che un programma, politico nell'unica direzione possibile, cioè quella di un progressismo moderno, in grado di intercettare un ampio voto di opinione.
Ma non è cosa dell'oggi; a questo proposito, per il momento noto solo una chiara volontà di parlare al proprio ombelico, cioè ai propri militanti, di rinserrare i ranghi, di compattare le fila di una militanza che, per tutte le componenti in gioco, sembra sfilacciata e incerta. Tutti veniamo da sconfitte recenti e laceranti scissioni e quindi è comprensibile questa esigenza. Altrimenti non si spiegherebbe il ricorso, piuttosto sofisticato e di così scarso interesse per gran parte di quell'elettorato, magari di sinistra, ma indeciso e "fluttuante" che però fa la differenza, ad un argomento come la "riappropriazione del termine libertà". Oppure della riproposizione di un nome che si riferisce a vecchi percorsi - "sinistra" - o che fa eco alla più abusata nomenclatura berlusconiana - "libertà" - che, in termini di comunicazione politica, rappresenta un errore marchiano. Basta leggere in fondo, basta studiare, come al solito... Lakoff, l'autore, tra l'altro, di "Non pensare all'elefante", oltre che scienziato cognitivista anche curatore di alcune campagne elettorali - di successo - dei democratici americani raccomanda proprio di non utilizzare le parole, cioè i concetti, dell'avversario. Ma forse Claudio Fava ne sa più di Lakoff...o forse no. Forse si tratta proprio di una strategia voluta, come dicevo prima. Una strategia che una militante come me che ha come orizzonte la nazione, che l'unica politica che pensa valga la pena praticare sia quella che affronta i problemi strutturalmente e proponga soluzioni di sistema, fa fatica ad accettare. Ma tant'è. La politica ai tempi di Sinistra e Libertà è questa evidentemente: navigazione a vista e piccolo cabotaggio. Ma non per tutti. E non per molto. Gli "Italiani Progressiti" faranno la differenza.

lunedì 2 febbraio 2009

IP - Italiani Progressisti

Italiani Progressisti è un'iniziativa post-ideologica, come si usa dire, che prevede il superamento delle categorie tradizionali di destra e sinistra, evidentemente obsolete, per affrontare il processo di cambiamento della nazione da un'ottica che tenga conto di codici diversi: il discrimine non può più essere l'appartenenza - a questo o a quel "credo" e quindi l'automatica collocazione in questa o quella "chiesa" - ma la partecipazione e l'adesione ad un progetto inteso al superamento della staticità di questa ingessata società italiana verso un maggiore dinamismo e una reale capacità di interazione con le istanze sociali e culturali della contemporaneità.
Uno dei temi da affrontare è quello della paura, della diffusione della paura a proposito del cambiamento, dell'incontro con l'altro e diverso, della perdita delle sicurezze e delle stabilità, dei progressi della ricerca scientifica e della loro ricaduta in ambito sociale. Il tema della paura, lungi dall'essere affrontato in termini di facile psicologismo, rimanda in modo forte a temi politici centrali della nostra società e, al momento, decisamente dirimenti. Sondaggi recenti, ad esempio, testimoniano come il caso Englaro - con tutto il suo portato politico e culturale riguardante l'ambito bioetico, dall'eutanasia al testamento biologico - stia nuovamente spaccando l'opinione pubblica e creando nuovi ambiti di consenso affatto rappresentati politicamente, se non da qualche sporadica Bresso, come si sa in profonda polemica con il partito di appartenenza. Bene, il partito socialista, nella scorsa stagione politica, ha fatto sue battaglie di questo genere, abbandonando parzialmente i suoi temi classici - vedi il lavoro - per andare alla conquista di nuove fette di consenso. Ha dato sostanza di significato al socialismo dei cittadini e ha avvicinato nuovi ambiti di elettorato. Ha mostrato coraggio insomma, attribuendo un senso più generale alle singole battaglie. Quel partito ci piaceva. Oggi sembra timido, mettendosi sulla seconda fila rispetto ai radicali, che però, come sappiamo, per le loro posizioni in politica internazionale e per il loro orientamento sull'economia, oltre forse che per una eccessiva disinvoltura sui temi dell'antiproibizionismo, non riescono a rappresentare l'anima (di sinistra) progressista di questo elettorato sbandato, che oggi va verso il pd o verso Di Pietro. Questa timidezza nell'aggredire il problema non da' piena soddisfazione a quella percentuale, alta o bassa non fa niente, di potenziale elettorato che vorrebbe essere chiaramente e senza mezzi termini rappresentato. E soprattutto non da' soddisfazione ai suoi pochi/molti militanti che non dimenticano che l'orizzonte non è il proprio insignificante ombelico, ma la nazione. Solo il Partito Socialista può incarnare credibilmente una seria elaborazione teorica e una importante azione politica. Possiamo fare di più e meglio. Facciamolo.

venerdì 16 gennaio 2009

Sulla fuga dei cervelli. E su un'idea di paese normale.

Riporto qui, dopo aver chiesto l'apposito consenso, i termini del dibattito che infuria in questi giorni sulla mailing list interna dei bibliotecari italiani. I medesimi, in gran numero (anche per me insospettabile), desistono dal cercare lavoro in Italia. Forse non tutti sanno che per fare questo mestiere, c'è bisogno di una notevole competenza di natura teorica - si trattano materie che fanno riferimento a discipline con un preciso statuto epistemologico - e una pratica che va periodicamente aggiornata. Non è un caso che in altri paesi europei, la qualificazione professionale del bibliotecario - oggi non più conservatore di conoscenze, ma "distributore" di saperi - è comparata a quella del ricercatore. Dicevo, quindi, che molti di questi aspiranti bibliotecari - chi può - sta emigrando, perchè in Italia sono semplicemente senza speranza. Qui di seguito riporto la risposta integrale di un bibliotecario che, a fronte della dis-occuppazione e sotto-occupazione di persone altamente qualificate che a loro spese studiano, fanni corsi di aggiornamento, si sobbarcano di qualsiasi onere per garantire continuità dei servizi per essere pagati, quando va bene, una miseria, espone, con non molta serenità invero, la situazione di "normalità, che egli vive in Germania. E' chiaro che l'esempio che propongo di questo settore dei lavoratori della conoscenza è sintomatico della drammaticità dello stato della P.A. in generale (concorsi "aggiustati, mancanza di canali ufficiali di professionalizzazione, mancanza di opportunità di lavoro, ecc...), condizione che emerge con ancora più drammatica chiarezza nel momento in cui viene messa a confronto con la situazione di altri paesi.
Buongiorno cari colleghi,
al riguardo delle esperienze all'estero io posso dire della Germania.
Lì, una volta laureatisi in uno degli indirizzi del corso universitario
o dei master di scienza della biblioteca, si invia un curriculum alle
biblioteche che offrono posti di lavoro e si viene poi invitati ad un
colloquio in base al voto finale della laurea e agli altri requisiti
personali (esperienze pratiche, altre competenze etc.). Chi è
bibliotecario, perché ha un titolo, lavora in biblioteca. Chi non ce
l'ha non può acquisire questo diritto in altro modo. Impensabile
sostituire 4 anni di studio universitario con un concorso. Semplicemente
ridicolo. E infatti i tedeschi ridono, quando gli racconto, come non
funziona in Italia.
Ma la cosa fondamentale è che in Germania non vige l'italian style. Un
direttore di biblioteca non decide in base alla sua appartenenza ad un
partito politico o in base a legami di parentela. Decide in base alla
corrispondenza fra profilo professionale richiesto dal posto di lavoro
che deve occupare e profilo professionale offerto da chi si candida. Una
linearità del genere non esiste ancora nella testa di chi attualmente
determina la realtà bibliotecaria italiana e neanche in tante altre
teste. È un fatto di cultura. Bisogna buttare via tutto e costruire un
sistema nuovo fondato su altri principi. Tentare di cambiare il sistema
attuale fondato sull'italian style non serve. Quelli non cambiano.
Quindi finché la situazione è questa, le teste migliori non hanno altra
scelta che andare all'estero, che poi è estero fino ad un certo punto,
visto che viviamo negli Stati Uniti d'Europa. L'Europa è bellissima e
vivere fra gente civile è un sogno soprattutto per noi che non ci siamo
abituati. Attualmente avere conoscenze e qualità in Italia non è un
criterio né per essere scelti, né per essere pagati. È questa la realtà.
In Italia ci andiamo a fare le vacanze, forse.

mercoledì 7 gennaio 2009

de-regulation: delle biblioteche e dei diritti lesi

La notizia come al solito è di quelle di nicchia: la biblioteca nazionale centrale di Roma semplicemente chiude un servizio - la distribuzione pomeridiana, tutta la ditribuzione per tutti i pomeriggi della settimana - come si può leggere da un comunicato preso dal sito della biblioteca http://www.bncrm.librari.beniculturali.it/ita/distribuzione3.html.
Ora, nonostante le promesse dell'attivazione di un sistema on line di prenotazione e l'incitamento nei confronti dell'utenza a far pressione affinchè i tempi di realizzazione del suddetto sistema siano i più brevi possibile, stupisce che un servizio fisiologico e di primaria importanza per una biblioteca (non soffermiamoci poi sullo scandaloso dettaglio che trattasi solo della nazionale di Roma) sia stato affidato ai volontari del servizio civile, che dovrebbero essere destinati solo a compiti di "affiancamento e supporto", come recita l'apposito regolamento. Stupisce altresì che in questa nazione non esista una cultura del servizio - almeno quello pubblico - tale da rendere ovvia la considerazione che i servizi culturali abbiano lo stesso livello di priorità degli altri servizi sociali, fino a quelli sanitari. Stupisce che non ci si renda conto e non si dia il giusto peso al fatto che la chiusura in blocco di un servizio culturale rappresenti semplicemente la menomazione di un diritto ancora garantito costituzionalmante: il diritto allo studio. Certo, siamo fra le poche nazioni che ancora non hanno trasformato in legge l'indicazione europea sulla tutela del diritto alla formazione permanente degli adulti, la cosiddetta lifelong learning. E' chiaro che senza servizi culturali - o con servizi che coincidono con l'orario di apertura degli uffici - sarebbe difficile attuarla una legge, qualora ci fosse. Insomma manca la legge, manca la cultura orientata al servizio. Ce n'è abbastanza per farne una battaglia politica che investa molti ambiti e che potrebbe essere lo spunto per correggere e dialogare , nella direzione di "un'amministrazione colloquiale", con l'attuale cultura dei fannulloni.