lunedì 20 dicembre 2010

PERCHE' ESSERE SOCIALISTA OGGI

La domanda che viene posta implica una risposta che, come accade per i quesiti che riguardano le scelte politiche, investe anche una dimensione esistenziale, perché mette in gioco, oltre che le convinzioni, anche l'identità. E quindi siccome non mi voglio sottrarre alla complessità della domanda, ma nello stesso tempo vorrei essere breve e comprensibile e non trasformare questa occasione in una seduta di psicanalisi o di autocoscienza, attingerò ad una strategia in linea con il politically correct del momento, grazie alla sua consacrazione mediatica: declinerò una lista. Certo il mio elenco sarà breve e un po' più ragionato.

1)- PERCHE' SONO ORIENTATA ALLA LAICITA', convinta come sono ancora che il benessere dei molti sia superiore all'interesse dei pochi. Il socialismo, alla fine del XVIII secolo, nasce come un corpus di pensiero che si opponeva all'individualismo, proposto invece dal conservatorismo formatosi in opposizione alla Rivoluzione Francese, ed ha avuto sempre il medesimo fine: produrre solidarietà e prosperità sociale. E questo, tanto più oggi nel Terzo Millennio, è possibile solamente in un società che riconosca pari dignità a tutte le sue componenti, siano esse sociali, culturali, religiose, politiche. Oggi ci troviamo di fronte a massicci fenomeni migratori, oggi dobbiamo risolvere le questioni in termini di integrazione e non di tolleranza. L'antico principio socialista dell'uguaglianza, oggi si declina come inclusione e la disuguaglianza come esclusione. L'inclusione si riferisce alla cittadinanza, o meglio alla promozione di una cittadinanza attiva che abbia l'opportunità di essere coinvolta nello spazio pubblico, sia trovando lavoro che dialogando con istituzioni aperte, perché laiche. Una cittadinanza consapevole, sottoposta a regole ed obblighi, ma che possa godere di contesti di opportunità quali l'accesso al lavoro, che rimane ancora elemento centrale per la misura dell'autostima e per il tenore di vita, e la promozione culturale, cioè l'istruzione. Oggi, nell'Italia del 2010, nel pieno di una crisi economica senza precedenti, di fronte a un deficit di crescita della prosperità economica e ad una progressiva destabilizzazione sul piano sociale, come dimostrano sia gli scontri di piazza che tutti gli indicatori che ci attestano ad un livello di crescita tra i più bassi d'Europa, solo l'attuazione di politiche di ispirazione socialista che mettano al centro dei propri obbiettivi la giustizia sociale potrebbero interrompere quella spirale che vede invece un aumento progressivo della disoccupazione e una società ingessata, che espelle i propri talenti e i propri cervelli, invece di valorizzarli. Solo la declinazione di politiche di ispirazione socialista, potrebbe modificare i caratteri della gestione di questa crisi così importante.

2)- PERCHE' SONO ORIENTATA AL CAMBIAMENTO: perché se c'è una lezione alla quale possiamo attingere storicamente dai socialisti è che sono sempre stati in grado di intercettare gli aspetti problematici delle società concrete e di organizzare delle risposte in termini di massa, perché il fine è sempre stato lo stesso: produrre cioè quella "buona vita" che proviene dallo sviluppo economico e sociale, ottenuto privilegiando gli aspetti di crescita individuale e di tutela generale. Quindi privilegiando politiche - e lo verifichiamo nelle socialdemocrazie del Nord Europa - di sviluppo dell'istruzione pubblica e del welfare. Insomma, solo in Italia non abbiamo ancora una traduzione legislativa dell'indicazione europea sulla lifelong learning, cioè sul diritto alla formazione lungo tutto l'arco della vita, che potrebbe dare impulso a nuove forme di occupazione e di imprenditoria giovanile, in un rinnovato rapporto tra pubblico e privato; forse perché solo in Italia, che è il Paese che detiene il 75% del patrimonio artistico e culturale mondiale, possiamo pensare che la "cultura non si mangia". Semplicemente il sistema-cultura andrebbe pensato e gestito come una risorsa e non come un peso, come un elemento che faccia da volano di un intero settore economico, prevedendo anche qui, in quadro di controlli e sanzioni, l'inserimento del privato. Così come il welfare. Forse, oggi, fissare la vecchiaia a 65 anni per tutti può essere sbagliato. Forse potremmo muoverci verso l'abolizione di un'età fissa di pensionamento e una parziale gestione individuale del pensionamento, nel quadro di un sistema di regole, che ci faccia cominciare a considerare gli anziani come una risorsa e non come un peso. Insomma potremmo promuovere un sistema di welfare positivo, che, per esempio, per quanto riguarda l'assistenza sanitaria, preveda il massiccio utilizzo della tecnologia da parte anche del singolo individuo che quindi venga responsabilizzato nella sua dimensione di assistito, utilizzando gli strumenti della telemedicina. Un welfare insomma,che pur rimanendo basato sulla protezione e sulla cura, investa sul capitale umano e diventi così una fonte di crescita.

3)- PERCHE' SONO ORIENTATA ALLA RAZIONALITA', AL PROGRESSO E ALLA MODERNITA', convinta come sono che la battaglia che bisogna combattere per far evolvere la Nazione sia anche la battaglia alla paura. Paura del progresso scientifico, paura o meglio diffidenza delle conquiste tecnologiche, paura di assumersi la responsabilità del proprio destino, dei temi fondamentali della vita e della morte, finora a quasi esclusivo appannaggio della Chiesa. Nessun diritto è possibile senza responsabilità, senza la nostra personale assunzione di responsabilità anche nei confronti del mondo naturale che ci circonda. Il socialismo non può sentirsi orfano di vecchie certezze, basate su vecchie organizzazioni sociali. Il socialismo è uno strumento di comprensione e gestione delle società così come sono, dell'utilizzo, senza timori, delle conquiste culturali, tecnologiche, scientifiche per conseguire il primato di una giustizia sociale concreta, non astrattamente teorica. Oggi questa giustizia sociale non può più essere basata sulla conservazione della tradizione, così come vorrebbero, almeno a parole, molte formazioni conservatrici come la Lega. Oggi la famiglia non è più la famiglia tradizionale e il nostro rapporto con il mondo naturale è fortemente influenzato dal progresso scientifico. Tutti i valori della tradizione e del costume stanno perdendo la loro influenza. Quindi nei confronti di noi stessi e del mondo naturale che ci circonda, e nessuna autorità è possibile senza democrazia, senza l'ossequio alle regole della democrazia, che per quanto riguarda l'Italia rimandano alla Costituzione.

Il mio elenco è finito. Spero di vedere l'affermazione di questa "rivoluzione dolce"; anzi spero di contribuire a realizzarla e spero di farlo insieme a voi.



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martedì 14 dicembre 2010

Così su un blog del "Nord", così a proposito del razzismo della Lega

So che gli amministratori della lega di solito sono dei buoni amministratori. Ed è per questo credo che li votiate (mi riferisco in generale alle persone che vivono a nord della nazione essendo io di roma, e a nessuno in particolare). Detto questo, purtroppo la battaglia come al solito è culturale prima che politica. Il fatto che normalmente gli amministratori locali siano espressione del territorio (e pertanto vicini ai problemi dei cittadini), spesso significa che insistono sulle paure e sui problemi irrisolti, come l’integrazione, con un semplicismo e una modalità tranchant che risolve facilmente questioni enormi e comuni almeno a tutta Europa. Questo capitalismo selvaggio e liquido che prevede una società sempre più divaricata tra utilizzatori (ricchi) da una parte e produttori (poveri) dall’altra si incarna in Italia principalmente nella Lega. Per l’equilibrio del sistema è necessario che i produttori siano sempre più ignoranti: basta dargli una televisione imbonitrice, poca e cattiva scuola pubblica, brutti e mal retribuiti lavori e una carota davanti sempre oscillante…Cari compatrioti del nord, che dire…non vi arrendete. Coltivate la scuola pubblica e lottate per il suo rinnovamento e la sua salvaguardia; andate al sud, non solo in vacanza; sentitevi parte di una nazione intera e integra, che lotta tutta insieme, anche se a due o più velocità, per il proprio miglioramento; voi che siete i “migliori” della nazione, avete maggiori responsabilità: fatevi carico di conoscerla la nazione e non di giudicarla. Solo con una rivoluzione copernicana sul piano culturale potremo dare un senso a questa strana unità d’Italia e ad accettare senza paure i “diversi” di tutte le specie. Solo così i messaggi retrivi e medievali della Lega si svuoteranno dall’interno

giovedì 25 novembre 2010

“TI AMO DA MORIRE”: BREVE DOSSIER SULLE DISPARI OPPORTUNITA’

«Sono stimate in 6 milioni 743 mila le donne da 16 a 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,9% della classe di età considerata). 5 milioni di donne hanno subito violenze sessuali (23,7%), 3 milioni 961 mila violenze fisiche (18,8%). Circa 1 milione di donne ha subito stupri o tentati stupri (4,8%). […] Il 24,7% delle donne ha subito violenze da un altro uomo. Mentre la violenza fisica è più di frequente opera dei partner (12% contro 9,8%), l’inverso accade per la violenza sessuale (6,1% contro 20,4%) soprattutto per il peso delle molestie sessuali. […] Nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate. Il sommerso è elevatissimo e raggiunge circa il 96% delle violenze da un non partner e il 93% di quelle da partner. Anche nel caso degli stupri la quasi totalità non è denunciata (91,6%). È consistente la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle subite dal partner e 24% per quelle da non partner). […] Le violenze domestiche sono in maggioranza gravi. Il 34,5% delle donne ha dichiarato che la violenza subita è stata molto grave e il 29,7% abbastanza grave. Il 21,3% delle donne ha avuto la sensazione che la sua vita fosse in pericolo in occasione della violenza subita. Ma solo il 18,2% delle donne considera la violenza subita in famiglia un reato, per il 44% è stato qualcosa di sbagliato e per il 36% solo qualcosa che è accaduto. Anche nel caso di stupro o tentato stupro, solo il 26,5% delle donne lo ha considerato un reato. Il 27,2% delle donne ha subito ferite a seguito della violenza. […] 1 milione 400 mila donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni, il 6,6% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Gli autori delle violenze sono vari e in maggioranza conosciuti. Solo nel 24,8% la violenza è stata ad opera di uno sconosciuto. Un quarto delle donne ha segnalato un conoscente (24,7%), un altro quarto un parente (23,8%), il 9,7% un amico di famiglia, il 5,3% un amico della donna. Tra i parenti gli autori più frequenti sono stati gli zii. Il silenzio è stato la risposta maggioritaria. Il 53% delle donne ha dichiarato di non aver parlato con nessuno dell’accaduto. 674 mila donne hanno subito violenze ripetute da partner e avevano figli al momento della violenza. Il 61,4% ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più episodi di violenza. Nel 19,7% dei casi i figli vi hanno assistito raramente, nel 20,1% a volte, nel 21,6% spesso».
Così “recita” l’ultima ricerca ufficiale dell’ISTAT sulla violenza sulle donne in Italia, datata 2007, e questa è la fotografia che ne emerge. Altri dati - oltre a questi reperibili presso il sito dell’ISTAT (http://www.istat.it/dati/catalogo/20091012_00/Inf_08_07_violenza_contro_donne_2006.pdf) e (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070221_00/testointegrale.pdf) – che ci raccontano come 119 siano state le donne uccise in Italia nel 2009 e 115 già solo fino a ottobre 2010 (e di queste il record è detenuto dal nord, in ragione del 28%), completano il quadro sconfortante di una società in cui una donna su tre subisce almeno una forma di violenza da parte di un uomo, durante l’arco della propria vita.
La violenza personale spesso, come si evince chiaramente dalla ricerca ISTAT, non viene percepita dalla stessa vittima come tale, quando questo fenomeno è causato da un parente, un familiare, un partner. Aspetti psicologici a parte, viene da pensare che la violenza sulla persona si accompagna ad una più generale violenza sociale, che evidentemente non prevede forme di riprovazione collettiva abbastanza potenti da scoraggiarne l’uso e da infondere fiducia nelle vittime.
La legge contro lo stalking è sicuramente un deterrente necessario “di base”, ma insufficiente a contrastare un fenomeno di questa portata e, a quanto dicono i dati, in continua crescita. Le campagne di sensibilizzazione, come quella promossa dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna () e il Fatebenefratelli di Milano che hanno redatto un vademecum destinato agli operatori sanitari per individuare le vittime di violenza domestica e prevenire la tragedia, intervenendo ai primi segnali, sono necessarie ed indispensabili per contrastare un fenomeno culturale e sociale insieme.
I provvedimenti repressivi e di tutela – sacrosanti ed indispensabili – possono e devono accompagnarsi a misure economiche e a forme di relazione sociale che, tutte insieme, concorrano a stabilire un humus legislativo e culturale favorevole al risanamento della discriminazione della donna che è ancora una realtà in Italia come in Europa, e che copre uno spettro d’azione che va dagli abusi domestici e non, passando per la disoccupazione e la disparità di trattamento economico, fino al limitato accesso agli incarichi di responsabilità.
È perciò indispensabile e urgente, soprattutto in Italia, l’approvazione di un bouquet legislativo che investa vari ambiti e che sancisca un diritto delle donne a tutto campo. Provvedimenti che, raccogliendo il meglio della normativa europea, intervengano almeno sull’approvazione delle unioni civili per etero e omosessuali; sulla parità politica e di accesso alle cariche, rendendo democratiche le strutture dei partiti politici; sul lavoro e sui congedi parentali, basandoli sulla logica della solidarietà, per la quale le donne non debbano più essere penalizzate dalla maternità e da una impropria attività di welfare; sulle violenze sessuali e coniugali, e sull’obbligatorietà dell’educazione sessuale. Solo con un intervento legislativo generale saremo in grado di orientare tutta la società alla parità dei diritti e delle opportunità. Solo una forza socialista e progressista può promuovere questo processo. Non perdiamo altro tempo.

mercoledì 14 luglio 2010

Discorso Congresso Socialista - Perugia luglio 2010

«OCCUPIAMOCI DI FUTURO» è il titolo che sintetizza il nostro dibattito congressuale ed è un titolo che personalmente mi entusiasma.
Ma per sviluppare questa nostra ispirazione sul futuro, bisognerà occuparsi di PRESENTE: ci proverò, consapevole però che si tratta, nello stesso tempo, di un’operazione facile e difficile.
E’ facile perché articolare un ragionamento sull’analisi di tutti i temi irrisolti e le questioni aperte della politica italiana è forse un’operazione un po’ lunga, ma piuttosto semplice. Le questioni sono tutte là, all’ordine del giorno dei dibattiti televisivi o delle denunce dei partiti d’opposizione o di semplici cittadini.
E spesso questi temi sono lì da anni e in molti casi non hanno ancora trovato una soluzione soddisfacente.
Farò un esempio per tutti: la parità, o meglio, la disparità di genere.
“È tempo di donne”ho detto e scritto recentemente. Già, sarebbe tempo di donne, ormai; sarebbe il tempo in cui le donne, fuori da ogni logica di quota, crescessero in importanza nella società. Sarebbe ormai tempo che tutti i soffitti di cristallo o vetro vengano sfondati; che l’uguaglianza e la parità tra i generi, sancita dalla Costituzione, non fosse, nei fatti, disattesa dalla Nazione; sarebbe tempo ormai che questo 46% di occupazione femminile – che ci rende simili solo al Messico e alla Turchia, secondo le stime dell’OCSE – si adeguasse a quel 60% che è la media europea e l’obbiettivo posto dalla strategia di Lisbona.
Raramente tema è stato più dibattuto a livello nazionale e internazionale, sul piano teorico e su quello politico; eppure questa, che è una questione che risponde ad un elementare principio di giustizia – peraltro sancito dall’art.3 e dall’art. 37 della nostra Costituzione, che, tra l’altro, riconosce il valore sociale della maternità – non riesce a trovare soluzione.
È così difficile – chiedo – che un partito laico, progressista, socialista, si faccia carico con una parola d’ordine chiara, inequivocabile, esplicita della soluzione del problema? E non per un fatto di benevola condiscendenza, ma per rimettere in moto una società vecchia, come quella italiana, che va appunto a due velocità, quella degli uomini e quella delle donne. Da anni l'Italia cresce poco o nulla. Cresce poco dal punto di vista economico e cresce ancora meno dal punto di vista demografico (soprattutto se escludiamo l'immigrazione). I due fenomeni sono già adesso collegati. Ma lo saranno ancora di più in futuro: una società "vecchia" non ha i muscoli per correre, non ha il fiato per tenere il passo con società più giovani e dinamiche. Per rilanciare la crescita dell'Italia si possono e si devono fare molte cose: liberalizzazioni, mercati più efficienti, un fisco più leggero per imprese e lavoratori, più incentivi per ricerca e innovazione, più sostegno per i figli e così via. Ma "far largo alle donne", dare più spazio alle loro aspirazioni, ai loro talenti, ai loro bisogni farà ripartire l’Italia e la farà tornare a crescere e a crescere bene. E questo non lo dice Maria Squarcione, ma lo dimostra l’esperienza di società avanzate, come quella nipponica e statunitense, che promuovendo un’agenda di cambiamenti strutturali che rilanciano l’occupazione femminile, la cosiddetta “womenomics”, ha prodotto una serie di risultati economici estremamente soddisfacenti: l’emersione di nuovi talenti e quindi un arricchimento esperienziale per tutti; l’aumento dei consumi “rosa”, cioè la conquista di nuove fette di mercato; la creazione di un volano per lo sviluppo dell’artigianato terziario (cioè tutti quei servizi alla persona che, in Francia, hanno trovato la loro cornice politica in un “Piano dei servizi alla persona” che ha condotto quella nazione, in pochi anni, ad essere la prima in Europa per natalità). Anche noi abbiamo un piano sociale nazionale, ma mentre nel resto d’Europa, più le donne lavorano, più si sentono soddisfatte e più le famiglie sono stabili, più cresce la natalità, in Italia, più le donne lavorano, meno fanno figli, meno possono fare figli.
Allora, “occuparsi di futuro”, visto che dichiariamo di volercene occupare, COINCIDE CON UNA CAPACITA’ PROGETTUALE ADULTA E CONSAPEVOLE e con l’idea che questo partito è innanzitutto il PARTITO DELLA SOCIETA’ TUTTA INTERA, di un’idea di SOCIETA’ UNITA – e non divisa dall’appartenenza al genere o a una regione del Nord o del Sud – RAZIONALE, dove il merito sia misurabile, sia un criterio di concretezza e di metodo e non un vuoto clichè che si ripete per propaganda; EFFICIENTE, dove siano banditi gli sprechi della Pubblica Amministrazione, come l’iniquità di un sistema giudiziario da riformare.
Anche se abbiamo deciso di occuparci di futuro, spesso questo partito parla al PD, al passato o a se stesso. Ora, parlare al PD, valutando le risposte che il suo segretario a questo congresso NON ha dato, forse non serve ancora a molto; parlare al passato è utile nei termini dell’attivazione di un sistema identitario di rispecchiamento; parlare a noi stessi, sarebbe utile qualora da questo congresso esca non solo una dichiarazione d’intenti – “occupiamoci di futuro” – ma un chiaro impegno fattivo che finalmente prefiguri un’idea di NAZIONE LAICA, UNITA, un’idea di SOCIALISMO RAZIONALE. È questo che ci aiuterà a conquistare consenso e voti. Perché sono convinta che in questo momento i socialisti vogliano esserci, contare, vincere, attuare insomma la propria UTOPIA.
Certo. È una sfida. Personalmente mi auguro di vincerla con voi.

giovedì 10 giugno 2010

E' tempo di donne

Il dibattito congressuale di un partito socialista, laico e progressista non può prescindere dalla riflessione specifica e dall'assunzione programmatica di un impegno inderogabile nei confronti dei temi della parità di genere. Tra i quali, a giudizio dell’ISTAT, ce n’è uno particolarmente urgente: quello del lavoro.
Nel 2009 il tasso di occupazione femminile in Italia si è attestato al 46,1%, a fronte di quello maschile che è del 67,6%. In numeri assoluti, dunque, gli uomini occupati sono 13 milioni e 613 mila, mentre le donne 9 milioni e 218 mila, cifre ben distanti da quel 60%, entro il 2010, che era l'obbiettivo comunitario, stabilito dalla strategia di Lisbona. In particolare, il numero di donne occupate nel sud è pari al 30,6%, dove peraltro il divario occupazionale tra i generi aumenta, e il numero delle donne inattive - cioè che non studiano e non lavorano in un'età compresa fra i 15 e i 64 anni - è di 9 milioni e 679 mila, pari al 45,8%, come media nazionale. Dati perfettamente congruenti con quelli OCSE, che vedono l'Italia ben al di sotto del 50% di occupazione femminile, meglio solo di Turchia e Messico, e ancora molto lontana dalla media europea che è del 62%.
D’altronde, già nel 2008, uno studio italiano sulla questione aveva confermato questa come l’emergenza fra tutti i temi legati al genere: «Da anni l'Italia cresce poco o nulla. Cresce poco dal punto di vista economico e cresce ancora meno dal punto di vista demografico (soprattutto se escludiamo l'immigrazione). I due fenomeni sono già adesso collegati. Ma lo saranno ancora di più in futuro: una società "vecchia" non ha i muscoli per correre, per tenere il passo con società più giovani e dinamiche. Al fine di rilanciare la crescita dell'Italia si possono e si devono fare molte cose: liberalizzazioni, mercati più efficienti, un fisco più leggero per imprese e lavoratori, più incentivi per ricerca e innovazione, più sostegno per i figli e così via. Ma c'è una cosa forse più importante e più urgente su cui puntare: il lavoro delle donne. Per far ripartire l'Italia, si deve "far largo alle donne", dare più spazio alle loro aspirazioni, ai loro talenti, ai loro bisogni. Senza le donne l'Italia non può tornare a crescere, soprattutto a crescere bene». Così Maurizio Ferrera, docente di Teoria e politiche dello stato sociale all'Università di Milano, nel suo libro "Il fattore D".
Affermare la necessità di riequilibrare con urgenza l'occupazione femminile non coincide solo con l'affermazione di un principio di equità e giustizia, bensì anche con una valutazione più squisitamente economica, che investe il rilancio dell'intera nazione.
Il primo aspetto - l'equità e la giustizia - è garantito e tutelato dalla Costituzione Italiana, nell'art. 37: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e a parità di lavoro le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata protezione». Articolo che non solo sancisce l'uguaglianza dei diritti tra uomo e donna - «senza distinzione di sesso», come sottolinea già l'art.3 - ma stabilisce anche la parità delle condizioni di accesso alle opportunità e di trattamento, nonché la funzione sociale della maternità.
Il secondo aspetto, cioè quello più prettamente economico, che vede nel rilancio dell’occupazione femminile un volano per la crescita dell’intera società, viene confermato invece dall’osservazione dell’esperienza di molte società europee: dall’Olanda alla Svezia, dalla Gran Bretagna alla Francia.
L’esperienza europea ci conferma che inserire più donne nel mercato del lavoro ha coinciso con un aumento dei servizi alle famiglie e dei servizi in generale, cioè con un’espansione del terziario avanzato o, con altra espressione, dell’artigianato terziario; l’esperienza americana ed europea, francese in particolare, ci conferma inoltre che abbattere il “soffitto di cristallo” ha significato non solo l’emersione di talenti “rosa”, che hanno prodotto risultati positivi rispetto a numerosi indicatori di performances aziendali, ma anche un considerevole aumento dell’attrazione di consumi femminili. Insomma, guardando all’esperienza dei paesi anglosassoni, di quelli del nord Europa, e della Francia in particolare, emerge che favorire l’immissione delle donne nel mercato, a tutti i livelli, provoca una serie di circoli virtuosi che generano più crescita e più benessere. Inoltre, secondo la “Womenomics” - cioè il recente orientamento strutturale delle società occidentali avanzate, come quella statunitense e nipponica, che promuove un’agenda di trasformazioni economiche, sociali e culturali per specifiche misure a favore del protagonismo femminile nell’economia, ai fini del conseguimento di alti livelli di sviluppo e prosperità dell’intera società - l’occupazione femminile fa bene alla crescita, rende le donne più soddisfatte e le famiglie più stabili. Ciò implica che, con lo sviluppo dei servizi alla persona e alla famiglia, anche il tasso di natalità aumenta, come dimostrano indagini empiriche condotte in società europee come la Francia. Ne consegue che l ’Italia, con il suo livello di disoccupazione femminile, soprattutto nel sud, è detentrice di un enorme serbatoio di sviluppo e, quindi, di un grande potenziale di crescita demografico ed economico, nonché sociale e culturale.
Un partito che si definisce progressista e laico, non può che essere orientato alla modernità e a favorire tutte le dinamiche e i circuiti virtuosi per la crescita e lo sviluppo, oltre che a garantire e tutelare elementari principi di giustizia. E’ per questo motivo che il Partito Socialista Italiano, in questo Congresso, non può che prendere un impegno per la promozione di un “Piano nazionale per i servizi alla persona” che preveda una serie di misure volte ad abbattere definitivamente gli ostacoli strutturali alla crescita dell’occupazione femminile e al suo miglioramento, tramite l’eliminazione di qualsiasi “soffitto”. Il “Piano”così, risulterebbe non solo un valido strumento per la crescita economica di una Nazione dinamica, che non andrebbe più “a due velocità”, ma sarebbe altresì propedeutico all’altra “battaglia” che programmaticamente questo partito dovrebbe affrontare e porre tra le sue priorità: l’applicazione dell’art. 49 della Costituzione, ovvero la trasformazione dei partiti in organismi definitivamente democratici. L’attestazione di regole certe e chiare stabilite in statuti dovrebbe prevedere anche l’affermazione concreta della possibilità di partecipazione massiccia delle donne alla vita politica del Paese, che sarebbe un passo fondamentale per la costruzione di una cultura e di una politica realmente progressiva e avanzata. Senza interventi strutturali però questo non sarà possibile, a dispetto di qualsiasi dichiarazione di principio.
Dunque, in tutti i settori della società – dall’economia alla politica – E’ TEMPO DI DONNE. I partiti socialisti europei lo sanno e contribuiscono a promuovere politiche volte alla loro affermazione; è fondamentale per la Nazione che questo congresso sancisca pubblicamente che anche il Partito Socialista Italiano ne è consapevole e che è la prima forza italiana che ne farà una parola d’ordine per la propria azione politica per il bene del Socialismo e dell’Italia.

venerdì 28 maggio 2010

Tra economia e politica vince il socialismo dei cittadini

Il rapporto tra economia e politica sta intercettando temi di stretta attualità, a metà tra la cronaca giudiziaria e quella politica. Questo rapporto è intenso ed ineludibile perché politica ed economia esprimono due interessi forti: la politica interpreta l'economia secondo il modello per il quale il fine è politico e il mezzo è economico; l'economia a sua volta punta ad influenzare con i suoi mezzi le decisioni che i vertici politici assumono. In mezzo, diciamo così, c'è la forza del denaro che in molte occasioni si trasforma in un sistema affaristico che costituisce una micidiale occasione per aggredire la moralità pubblica. Gli esempi antichi e recenti non mancano di pratiche che incidono pesantemente sui comportamenti pubblici e che mettono in discussione la tenuta morale complessiva della classe dirigente e di gran parte del "sistema paese".
Un socialismo moderno e avanzato rappresenta una valida risposta alla domanda di ripristino del senso della responsabilità pubblica, cioè di quel messaggio che deve arrivare ai cittadini che la politica non è il luogo privilegiato della furba truffaldineria egoistica di alcuni, bensì il luogo della speranza, dell'utopia, del cambiamento.
Perché ciò accada, un moderno partito socialista deve mettere al centro della sua azione un cittadino esperto dei suoi diritti e consapevole dei suoi doveri. Deve essere in grado cioè di coniugare giustizia sociale e diritti individuali, interesse collettivo e azione di lobbyng; deve promuovere il protagonismo di un cittadino attivo, di una società dinamica e regolata, secondo un sistema che non stritoli, nel nome spesso di un ipocrita e fumoso interesse generale, le legittime aspettative individuali, legate al merito e alla qualità. Un merito e una qualità misurabili, che si poggino su un criterio di giustizia che non discrimini per censo o per appartenenza sociale e che per questo siano concretamente attuabili in un sistema di regole condiviso, in grado di attivare modelli di rispecchiamento e pratiche di partecipazione.
C'è bisogno però di ripristinare, come si diceva, il senso della responsabilità pubblica.
Intanto, lo si può fare in modo indolore, partendo dalle classi dirigenti e dai suoi criteri di selezione, regolamentando i partiti in statuti e accentuando la natura pubblica e collettiva di questi organismi, a scapito di una visione proprietaria e personalistica. Trasformando cioè i partiti in organismi democratici: basta semplicemente dare attuazione all'art. 49 della Costituzione.
Così come per una società che non vada più "a due velocità" e che invece tutta unita si diriga verso un futuro condiviso, il nuovo socialismo dovrà intensificare la promozione di provvedimenti in favore della parità di genere. Assumendo i temi della procreazione come valore collettivo e non come fatto privato delle donne, il mainstreaming esclude l'adozione di iniziative specificatamente rivolte alle donne attraverso politiche protezionistiche, ma stimola la mobilitazione di tutte le politiche e di tutte le misure generali, facendo assumere alla società nel suo insieme una specie di "punto di vista di genere", sia per programmare l'accesso alle risorse, che per regolare i tempi di vita e di lavoro.
Inoltre, l'attualità ci mette quotidianamente di fronte a situazioni per cui i limiti nazionali vengono messi in discussione, sia che si tratti della sovranità nazionale - come nel caso della Grecia - sia che si tratti dei diritti fondamentali della persona, sanciti appunto a livello europeo e mondiale. In questo contesto globalizzato, solo un approccio laico può garantire libertà di coscienza, di conoscenza, di credenza, di critica. E occuparsene - cioè acquisire la laicità come pratica e come punto di vista - significa occuparsi della fisionomia che la democrazia può assumere nel nostro Paese. Solo una Nazione laica, con istituzioni indipendenti, neutrali, equidistanti, che si oppone al dogmatismo e al fondamentalismo in qualsiasi ambito essi si manifestino, può garantire parità di trattamento, lotta a qualsiasi forma di privilegio, tutela delle minoranze, fissazione dei limiti giuridici a qualsiasi forma di potere.
E, quindi, in concreto, può garantire l'attuazione di politiche che siano di integrazione e non di tolleranza nei confronti degli immigrati; può permettere di riconsiderare il rapporto tra "pubblico" e "privato" alla luce del progresso scientifico e tecnologico che ha trasformato la naturalità degli eventi in fattori di scelta autonoma e personale: gli argomenti della vita, della morte e della sessualità diventano sempre di più scelte etiche con rilevanza sociale, piuttosto che opzioni individuali sottoposte solo al giudizio delle coscienze e al monopolio etico delle religioni.
Ed infine, un socialismo moderno, ponendo la laicità come prospettiva di metodo, può ispirare positivamente assetti sociali che guardino al welfare e alle politiche del lavoro in modo avanzato. Può ispirare un “welfare positivo” - che si avvale di sistemi socio-tecnologici integrati per mirare l’intervento alle persone - e offrire valide garanzie per tutelare il lavoro, oltre che il posto di lavoro, attivando politiche che favoriscano le "seconde chances", grazie alla valorizzazione della qualità e delle risorse del capitale umano, delle possibilità di un cittadino colto, informato, consapevole. Per questo un socialismo moderno deve mettere al primo posto l'appoggio alla ricerca, al primo posto un'autentica riforma della scuola e dell'università, che non sia questo freddo riordino amministrativo che ci hanno spacciato come riforma.
L’«iniezione di fiducia ai mercati», attuata con misure estreme in vasti settori produttivi, avrebbe potuto avere caratteri diversi se si fosse privilegiata l’economia, che si basa sulle persone, piuttosto che la finanza, che prescinde dalle persone. Un socialismo moderno e razionale non può nemmeno ipotizzare di avallare un modello di sviluppo economico che non tenga conto delle persone e che non sia inquadrato in un modello di sviluppo sociale, che al centro ponga il benessere e la tranquillità di un cittadino arbitro di se stesso e artefice della società di cui può e deve essere protagonista.

domenica 23 maggio 2010

Discorso alla Femip: il "Socialismo della Ragione" prende corpo

L'incontro di oggi, centrato sul rapporto tra politica ed economia, giunge quanto mai opportuno: oltre a rappresentare un'occasione di confronto, intercetta ahimè temi a metà tra l'attualità politica e la cronaca giudiziaria.
Il rapporto tra politica ed economia, i due pilastri sui quali si regge la società, è intenso ed ineludibile. Politica ed economia esprimono due interessi forti: la politica interpreta l'economia secondo il modello per il quale il fine è politico e il mezzo è economico; l'economia a sua volta punta ad influenzare con i suoi mezzi le decisioni che i vertici politici assumono. In mezzo, diciamo così, c'è la forza del denaro che in molte occasioni si trasforma in un sistema affaristico che costituisce una micidiale occasione per aggredire la moralità pubblica. Gli esempi antichi e recenti non mancano e si tratta di pratiche che incidono pesantemente sui comportamenti pubblici e che mettono in discussione la tenuta morale complessiva della classe dirigente e di gran parte del "sistema paese".
Questa riflessione, dicevo, al di là del dato tecnico, che mi sono permessa di riassumere in parole così povere - e gli economisti presenti perdoneranno questa estrema semplificazione - si carica di una valenza fortemente politica proprio per la sede nella quale questa oggi si esprime. Come vedete tutti, ci troviamo in un contesto che vede riuniti insieme più generazioni di socialisti: e questo mi suggerisce un ideale "passaggio di testimone" che rende, a miei occhi e spero anche ai vostri, molto interessante parlare in questa assise di socialismo.
E' interessante perchè un socialismo moderno e avanzato rappresenta sicuramente una valida risposta alla domanda di ripristino del senso della responsabilità pubblica, cioè di quel messaggio che deve arrivare ai cittadini, che la politica non è il luogo privilegiato della furba truffaldineria egoistica di pochi, bensì il luogo della speranza, dell'utopia, del cambiamento.
Sicuramente un moderno partito socialista - orientativamente quello che Zapatero in Spagna ha chiamato "il socialismo dei cittadini", che in Italia è stato ribattezzato da alcuni come il "socialismo gentile" - mette al centro della sua azione un cittadino esperto dei suoi diritti e consapevole dei suoi doveri. E' in grado cioè di coniugare giustizia sociale e diritti individuali, interesse collettivo e azione di singoli soggetti del pluralismo che, con una buona e regolamentata azione di lobbyng, possano partecipare in modo trasparente ed influente al processo di elaborazione e adozione di politiche pubbliche. E' un partito che promuove il protagonismo di un cittadino attivo di una società dinamica e regolata, secondo un sistema che non stritoli, nel nome spesso di un ipocrita e fumoso interesse generale, le legittime aspettative individuali, legate al merito e alla qualità. Un merito e una qualità misurabili, che si poggino su un criterio di giustizia che non discrimini per censo o per appartenenza sociale e che per questo siano concretamente attuabili in un sistema di regole condiviso, in grado di attivare modelli di rispecchiamento e pratiche di partecipazione.
Per attuare questo programma generale c'è però bisogno di ripristinare, come si diceva, il senso della responsabilità pubblica e lo si può fare intanto, in modo indolore, partendo dalle classi dirigenti, partendo dai criteri di selezione della classe dirigente, cioè dalla regolamentazione in statuti dei partiti che ancora oggi la selezionano. Trasformare i partiti in organismi democratici lo si può fare senza rivoluzioni, senza aggravio di costi, senza stravolgere leggi o approvarne di nuove: basta semplicemente dare attuazione all'art. 49 della Costituzione. Va da sè che questo processo di democratizzazione va nella direzione dell'eliminazione di partiti proprietari e della loro gestione personalistica, in favore della natura pubblica e collettiva di questi organismi.
Così come per una società che non vada più "a due velocità" e che invece tutta unita si diriga verso un futuro condiviso, il nuovo socialismo dovrà intensificare la promozione di provvedimenti di mainstreaming in favore della parità di genere, che escludono l'adozione di iniziative specificatamente rivolte alle donne e mobilitano invece tutte le politiche e tutte le misure generali. Una specie di adozione di "punto di vista di genere" - e a questo proposito sarebbe necessaria una legge che rendesse obbligatoria la valutazione dell'impatto di genere - di cui tener conto sia per programmare l'accesso alle risorse che per regolare i tempi di vita e di lavoro, che si occupi dal recupero delle aree urbane alla responsabilità sociale di impresa. L'adozione di questa prospettiva di genere permetterebbe ad un tempo il superamento di politiche protezionistiche e lo sviluppo di una società armonica, che comprenda come suo valore l'assunzione di responsabilità sociale il tema della procreazione che non verrebbe più relegata ai destini individuali, ma adottata da tutta la società, in quanto "i figli" non verrebbero più considerati un affare personale delle donne - che quindi se lo devono risolvere da sole - ma un bene e un valore dell'intera comunità.
Inoltre, l'attualità ci mette quotidianamente di fronte a situazioni per cui i limiti nazionali vengono messi in discussione, sia che si tratti della sovranità nazionale - come nel caso della Grecia - sia che si tratti dei diritti fondamentali della persona, sanciti appunto a livello europeo e mondiale. In questo contesto globalizzato, solo un approccio laico può garantire libertà di coscienza, di conoscenza, di credenza, di critica. E occuparsene - cioè acquisire la laicità come pratica e come punto di vista - significa occuparsi della fisionomia che la democrazia può assumere nel nostro Paese. Solo una Nazione laica, neutrale, equidistante, con istituzioni indipendenti, che si oppone al dogmatismo e al fondamentalismo in qualsiasi ambito essi si manifestino - dalla politica, alla scienza, alla scuola, alla religione - può garantire parità di trattamento, lotta a qualsiasi forma di privilegio, tutela delle minoranze, fissazione dei limiti giuridici a qualsiasi forma di potere.
E, quindi, in concreto, l'attuazione di politiche che siano di integrazione e non di tolleranza nei confronti degli immigrati, ad esempio; può permettere di riconsiderare il rapporto tra "pubblico" e "privato" alla luce del progresso scientifico e tecnologico che ha trasformato la naturalità degli eventi in fattori di scelta autonoma e personale: gli argomenti della vita, della morte e della sessualità diventano sempre di più scelte etiche con rilevanza sociale, piuttosto che opzioni individuali sottoposte solo al giudizio delle coscienze e al monopolio etico delle religioni.
Ed infine, un socialismo moderno, ponendo la laicità come prospettiva di metodo, può ispirare positivamente assetti sociali che guardino al cosiddetto "welfare positivo", che non solo è "a pioggia", ma si avvale di sistemi socio-tecnologici integrati, che aiutano ad individualizzare l'intervento, a finalizzarlo alle singole persone; che guardino ai temi del lavoro, garantendo il lavoro, oltre che il posto di lavoro, secondo una politica che favorisca le "seconde chances", valorizzando insomma al massimo la qualità e le risorse del capitale umano, le possibilità di un cittadino colto, informato, consapevole. Per questo un socialismo moderno deve mettere al primo posto l'appoggio alla ricerca, al primo posto un'autentica riforma della scuola e dell'università, che non sia questo freddo riordino amministrativo che ci hanno spacciato come riforma, ma che manca del presupposto fondamentale per definirsi tale: un'idea di sè, un'idea di futuro per le nostre giovani generazioni.
Insomma, per tornare infine all'inizio: la finanza prescinde dalle persone, l'economia è basata sulle persone. I socialisti non possono nemmeno ipotizzare di avallare un modello di sviluppo economico che non tenga conto delle persone e che non sia inquadrato in un modello di sviluppo sociale che al centro ponga il benessere e la tranquillità dei cittadini.
Io sono sicura che questo socialismo moderno e razionale voglia promuovere un cittadino arbitro di se stesso e artefice della società di cui è protagonista. Si tratta di attivare un percorso: noi socialisti veniamo da lontano e vogliamo andare lontano. Io, per mio conto, spero di condividerlo con voi questo percorso.

giovedì 13 maggio 2010

ANCORA DONNE. STAVOLTA PARS CONSTRUENS...

Già in altra sede individuavo nella pratica del lobbismo - cioè quella sana attività di pressione da parte di gruppi organizzati che intendono rappresentare interessi particolari presso i centri decisionali pubblici e istituzionali - una forma laica e dinamica di "offensiva" da parte delle donne nei confronti di un potere che le seleziona - quando lo fa - prevalentemente sui criteri dell'omologazione al modello delle "yes-women". Facevo riferimento ad un'azione che, avvalendosi in primo luogo di codici di condotta, di autoregolamentazione e di qualunque altra forma di testimonianza di autodisciplina, garantisca modelli e tuteli meccanismi di trasparenza. A mio avviso, la codificazione di un dialogo con le istituzioni o con altre organizzazioni pubbliche - come i partiti - passa attraverso l'attuazione di un percorso fatto di assunzione di responsabilità, in base ad un meccanismo di regole da applicare innanzitutto a se stesse.
L'interesse delle donne, in questo momento, è un interesse, diciamo così, generale: investe aspetti culturali, sociali e politici e per questo motivo la questione della responsabilità delle donnne è particolarmente importante. Ma se non sono le donne stesse che per prime si rendono credibili con comportamenti ed azioni trasparenti e regolati, esse non avranno mai alcuna chance di diventare interlocutrici di alcuno. Ecco perchè "smascherare" le cattive pratiche di azione politica (come quelle agite, ad esempio, dalle già citate "sedicenti organizzazioni femminili" le quali, pur operando localmente nel Partito Socialista, hanno oscurato, con il loro ipocrita appoggio a candidature maschili, il sostegno alle candidate delle ultime regionali, che invece gli organismi nazionali del Partito hanno loro ufficialmente offerto) è il primo passo per rendersi appunto credibili.
Un'azione corretta, trasparente e auto-regolata, raggiungerebbe l'obbiettivo di sottrarre il monopolio della rappresentanza delle istanze femminili ai soli partiti, che, fin qui, hanno contribuito alla scarsa visibilità e alla pressochè nulla legittimazione politica degli interessi delle donne, nascondendosi dietro all'ipocrisia dell'"interesse generale". Beh, sono proprio le istanze delle donne a tematizzare, oggi, l'interesse generale, come già si è detto: da quando le donne hanno smesso di tutelare i propri diritti faticosamente acquisiti negli anni, tramite battaglie generali, appunto, di cui il Partito Socialista è stato ampiamente protagonista, tutta la società ha subito una forma di arretramento culturale, legato principalmente ai diritti civili e al welfare e alle stesse donne, trasformate da attrici sociali in veline.
In conclusione, una seria attività di lobbing trasparente da parte delle donne ridarebbe fiato anche all'azione propositiva della società civile, che oggi, dai "grillini" al "popolo viola", è troppo schiacciata sulla denuncia e poco orientata alla proposta; le donne - a partire da quelle operanti nei partiti, che dovrebbero dare il classico "buon esempio" - rappresentando i propri legittimi interessi, potrebbero accedere in maniera diretta alle sedi deliberative e di governo, fungendo anche da volano all'azione propositiva dei partiti stessi. In questo modo, avremo salvaguardato, insieme all'identità, anche le garanzie di dialogo e di relazione, attivando meccanismi tesi ad abbattere le ingessature di una società, come quella italiana, ancora così chiusa sui privilegi acquisiti e immobile sui propri interessi di casta.

martedì 27 aprile 2010

Ancora sulle donne. Ancora pars destruens

L’ultima tornata elettorale ha messo ancora di più in evidenza uno dei mali endemici della politica italiana: la sostanziale assenza delle donne.
La media nazionale, dopo le elezioni del 2010, relativa alla nostra presenza in politica, è del 12,4% circa, con alcune punte di “eccellenza”: la Calabria, regione senza donne; il Lazio, nessuna donna eletta nelle fila del PD, e in tutto solo cinque, di cui due già dimissionarie (Bonino e Hack) a favore di uomini, a parte le sette del listino Polverini; nelle altre regioni, la presenza femminile, sia pur ridotta, si deve a specifiche norme ispirate al protezionismo delle quote.
Insomma, un esercito di uomini avanza in politica e nell’intera mappa del potere, fatta di CDA e presidenze di enti, le cui nomine sono di pertinenza pubblica: nel Lazio, la presenza delle donne in questi ambiti si aggira intorno al 2%.
Colpa della società, si dirà. Certo. In Italia la strutturazione sociale nel suo complesso è organizzata per contrastare, invece che confermare, l’orientamento al mainstreaming, consolidata prassi europea che prevede che tutta la società concorra alla parità di genere, innescando meccanismi virtuosi che coinvolgono tutti, uomini e donne.
Colpa anche delle donne, dico io. Un arretramento simile, sia politico che evidentemente culturale, non può più lasciare nessuno spazio agli alibi, alle cattive pratiche, soprattutto a quelle perpetrate dalle donne a scapito delle donne.
Un arretramento simile, che prefigura una società a senso unico, dove al genere femminile viene assegnato il solito ruolo ancillare per l’affermazione maschile e da “ape operaia” per il sostegno dell’intera organizzazione sociale, testimonia innanzitutto la cattiva pratica femminile, di cui abbiamo avuto ampia testimonianza proprio nelle ultime elezioni. Le donne, quando si sono impegnate, hanno fatto campagna elettorale per gli uomini, rendendosi complici dell’oscuramento delle altre donne; anzi, la cronaca ci testimonia di sedicenti organizzazioni femminili che sono sparite alle loro referenti naturali proprio per l'occasione elettorale, riducendo la politica e il sostegno di genere a qualche ridicola notarella di “augurio” su facebook. O peggio, a cose fatte, alla emissione di risibili comunicati, carichi di bolsa retorica vetero femminista, che offendono la dignità e l’intelligenza delle donne e degli uomini e che non fanno altro che solidificare quel soffitto di cristallo che a chiacchiere si dichiara di voler abbattere.
Il malessere evidente causato da questa politicuccia truffaldina ed egoistica – che rappresenta, con le variabili del caso, una costante di tutto lo schieramento almeno del centro-sinistra – trova la sua causa nell’assenza di democrazia interna nei partiti, deputati a selezionare la classe dirigente della Nazione, che disattendono sistematicamente l’applicazione dell’art.49 della Costituzione, dal quale evidentemente si deve ripartire. Questo scenario ha gravi ricadute negative sull’intera organizzazione democratica del Paese, generando fenomeni di arrogante autoreferenzialità del ceto politico, grande o piccolo che sia, potente o meno che sia; di sconcertante autismo di una casta, lontana dai bisogni, come dai territori; di un inaccettabile regime di cannibalismo tutto interno ai partiti, che ha scippato ai cittadini anche la fiducia nella partecipazione democratica, come attesta l’impressionante tasso di assenteismo al voto.
Il Partito Socialista lo sa e per opporsi a un simile scenario ha affidato un compito preciso a tutti i suoi eletti: ridimensionare l’autismo delle istituzioni attraverso una politica comune che favorisca l’equità di genere e le riforme. Una delle rarissime iniziative dello scenario politico italiano che testimonia il passaggio dal lamento all’impegno…

martedì 20 aprile 2010

La politica femminile come lobby

Quanto l'autismo delle istituzioni sia la malattia più diffusa della politica italiana ce lo conferma il risultato elettorale: nel Lazio, tra gli eletti del centro sinistra, non si sono viste né molte facce nuove, né molte donne. Anzi, quasi nessuna.
Il che significa che le donne, quando si sono impegnate, hanno fatto campagna elettorale per gli uomini e soprattutto non hanno sostenuto le donne alle quali, evidentemente, a parte rarissimi casi, non viene data alcuna possibilità di crescere politicamente. Il partito socialista non ha fatto eccezione a questa che sembra una regola generale della politica della nazione - il Lazio, con le sue candidature femminili a presidente fa caso a sé - anche se si è dimostrato sensibile al problema, grazie alle raccomandazioni del suo segretario nazionale, che tra le priorità del mandato agli eletti ha annoverato appunto l'equità di genere.
Ma evidentemente non basta. Non basta smentire pubblicamente sedicenti organizzazioni femminili che appoggiano candidature maschili e spariscono alle proprie referenti naturali - le candidate donne - proprio in occasione delle elezioni, riducendo la politica di genere a qualche noterella di augurio su facebook; non basta denunciare atteggiamenti palesemente ostili nei confronti delle donne che onestamente perseguono un impegno politico e che vengono pubblicamente dileggiate, anche sul piano personale, quando denunciano questo stato di cose.
Bisogna dunque ripartire dal lodevole impegno dichiarato dal segretario socialista e passare, come si dice, dalla protesta alla proposta.
L'alternativa, per le donne, per farle uscire da questo stallo, non può più essere evidentemente un vetero femminismo di maniera, fatto di bolsa retorica, utilizzato spesso da alcune donne stesse per solidificare ancora di più quel soffitto di cristallo, di cui sono prontissime a lamentarsi al bisogno, ma ritengo sia l'acquisizione di un metodo di pensiero e di lavoro che si concretizza nell'attività di lobbying.
Come si sa, in Italia, l'azione di gruppi di pressione e di interesse si declina più come fattore corporativo e "para-mafioso", piuttosto che come un insostituibile e addirittura costitutivo procedimento proprio di regimi democratici, che molto ha a che fare con la tutela di legittimi interessi e la realizzazione di un reale decentramento democratico. L'azione di lobbying, intesa non solo come forma di autotutela, ma come fattore propulsivo di miglioramento delle dinamiche sociali che la investono, viene favorita, in generale, dal decentramento del potere, dall'assunzione di procedure volte alla trasparenza, all'efficienza e alla responsabilità. Tutto ciò di cui le donne nel loro rapporto con la società italiana hanno un forte bisogno. Tutto ciò di cui la società italiana nel suo rapporto con le donne ha bisogno.
L'azione del "gruppo di pressione" può essere in grado di tradurre lo stesso orientamento al mainstreaming, che rappresenta una ormai consolidata prassi europea, che prevede che tutta la società concorra alla parità di genere, sancendo così il definitivo tramonto delle sia pur necessarie, ma sorpassate politiche di genere ispirate al protezionismo, come quelle relative alle quote. Il lobbismo dunque, fondato com'è sulla comunicazione e sulla trasparenza, potrebbe favorire il decisivo passaggio da un'azione rivolta ALLE donne - a cui anche il mainstreaming è parzialmente ispirato -ad un'azione DELLE donne, della quale esse potrebbero essere totalmente e assolutamente protagoniste, secondo una modalità che le metterebbe in relazione, da attrici appunto, con la società intera.
Dunque, il problema è propriamente culturale, perché una sana attività di lobbying, come quella di fundraising, ad esempio, si oppone al moralismo e al giustizialismo in egual misura, ponendo le condizioni anche per un ampliamento della sfera politica e pubblica. Le donne possono efficacemente diventare protagoniste di questo rinnovamento di cui tutti potrebbero giovarsi, a patto che abbandonino definitivamente le abitudini della politicuccia truffaldina ed egoistica a cui troppo spesso ancora oggi si ispirano.

sabato 27 marzo 2010

domenica 14 marzo 2010

Per una rete delle idee. Il Lazio che vorrei: appunti per un programma di coalizione

Il modello è una regione “FUORI DA SE’ ”, cioè una regione che vada verso i cittadini e non il contrario; quindi una regione COMUNICATIVA, TRASPARENTE, LEGALE. E’ su queste prerogative che è possibile costruire la FIDUCIA che viene richiesta.
Nel Lazio, si ha la possibilità di attuare un modello di RIDEFINIZIONE DI UN CORRETTO RAPPORTO TRA PUBBLICO E PRIVATO, completamente alterato dalle politiche e dalla cultura - ora demagogica, ora punitiva - promossa dal governo nazionale, che sia di riferimento per tutta la Nazione. A causa della sua peculiare composizione sociale che vede la compresenza di un’ imponente compagine di dipendenti pubblici (dalle istituzioni nazionali, alle università, ai grandi ospedali, si calcola che il Lazio abbia la più alta percentuale di dipendenti pubblici a tempo indeterminato ogni mille abitanti: 76,7% a fronte della media nazionale che è del 56,8% - dati CGIA, 2006) insieme ad un’altrettanta cospicua presenza di settori privati, il Lazio si definisce come il luogo idoneo per la ricostruzione – e in alcuni casi, la costruzione – di UNA CULTURA PUBBLICA DEL SERVIZIO. Ne discende:
1.SERVIZI CULTURALI, FORMAZIONE E LAVORO: il Lazio può dare attuazione all’indicazione europea sulla LIFELONG LEARNING, che non ha trovato ancora una traduzione in legge nazionale, attraverso un ampliamento h. 12 dei tempi di apertura di tutti i servizi culturali – dai musei alle biblioteche e, per quanto riguarda le sue competenze, le scuole – grazie alla promozione di cooperative di giovani qualificati e appositamente formati. L’investimento sulla cultura da parte della Regione, oltre ad essere congruente con la presenza di un larghissimo settore, darebbe attuazione concreta al diritto, sancito dall’Europa, di FORMAZIONE PERMANENTE per gli adulti (e anche per i giovani) e rappresenterebbe un volano per l’occupazione di cooperative giovanili.
2.LAVORO: un “grande Lazio, regione d’Europa” presuppone una regione orientata all’efficienza, alla semplificazione, all’ascolto, alla trasparenza e all’innovazione. Sarebbe quindi necessario investire energie per la creazione di data-base pubblici dell’offerta di lavoro, suddivisi per categorie, da fruire non solo tramite il sito della regione – molto difficile da consultare e quindi da rendere estremamente più friendly – ma anche tramite totem accessibili pubblicamente e consultabili presso tutte le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e altri luoghi di grande passaggio, nelle città della regione e nelle province. Una semplice innovazione tecnologica – gli schermi dei totem potrebbero essere touch screen e si potrebbe abbinare anche un servizio di sms – renderebbe facile l’accesso all’informazione per tutti i cittadini italiani e anche per gli immigrati e/o studenti stranieri che cercano anche lavori a tempo determinato. La facilità di accedere all’informazione relativa alle richieste di lavoro avrebbe inoltre la positiva conseguenza di far emergere il sommerso e di mettere al servizio della trasparenza e della legalità l’utilizzo delle tecnologie.
3.SICUREZZA E IMMIGRAZIONE: sarebbe auspicabile prevalesse un modello cooperativo, di integrazione e globale, piuttosto che un approccio di ordine pubblico, sostanzialmente repressivo. Nell’affrontare il problema, la prevenzione diventa fondamentale, presupponendo la conoscenza dei soggetti afferenti ad aree culturali diverse, la cui integrazione andrebbe gestita secondo una logica di concertazione. Insieme alla necessaria riabilitazione delle aree urbane, da gestire in sinergia con gli altri enti locali, la formazione alla lingua, alla cultura, alle regole civiche italiane assumerebbe un ruolo determinante che può, a buon diritto, essere completamente assunto dalla Regione, che, in linea con gli orientamenti europei, contribuirebbe a definire un’idea di cittadinanza attiva, collaborativa e consapevole. L’ipotesi operativa riguarda l’istituzione di una commissione che valuti l’impatto di sicurezza, secondo parametri standard europei, la realizzazione di bilanci partecipativi e un modello gestionale che, attivando un meccanismo di responsabilità, promuova una conferenza regionale dei servizi, con l’eventuale nomina di un manager per la sicurezza che, in sinergia con le municipalità, si assuma il compito di coordinare politiche per la casa soddisfacenti e scevre da sprechi; politiche di integrazione e non di ghettizzazione; una fitta e diffusa rete sul territorio di “assistenza culturale” agli immigrati; la promozione di una serie di servizi di accoglienza ad hoc per gli immigrati. La sicurezza così da fattore di emergenza diverrebbe modello gestionale riguardante il welfare, la qualità della vita, la regolamentazione e la promozione di infrastrutture e servizi.
4.SANITA’: Sarebbe necessario virare l’azione regionale dalla rincorsa verso la domanda di sanità alla promozione del bisogno di salute, tramite: una nuova organizzazione territoriale in base ad una ZONIZZAZIONE DELLE ASL non cittadine che tenga conto non dei limiti geo-amministrativi (il limite provinciale), ma delle affinità ambientali, antropiche, culturali e quindi epidemiologiche dei cittadini afferenti, ai fini di una migliore programmazione anche delle politiche di prevenzione; un impulso alla OSPEDALIZZAZIONE DOMICILIARE E A TUTTE LE FORME DI TELEMEDICINA riferite a tecnologie già esistenti e in alcune zone già operanti; L’INCREMENTO DEI DAY HOSPITAL E DI TUTTE LE STRUTTURE TERRITORIALI ALTERNATIVE AGLI OSPEDALI COME CONSULTORI E SERT; LA CARTELLA CLINICA INFORMATIZZATA, da rendere obbligatoria per tutti i nosocomi, che favorisca la messa in rete del sistema sanitario regionale, spesso molto informatizzato da sistemi tra loro non dialoganti; la promozione di servizi ad hoc nei confronti di situazioni sanitarie emergenti come L’ASSISTENZA SANITARIA IN AMBITO PENITENZIARIO; un impulso alla ricerca di fonti alternative di finanziamento, come la partecipazione a progetti europei, il coinvolgimento programmato di fondazioni private, la sperimentazione farmacologica, la promozio di prodotti home made.
5.WELFARE : sarebbe opportuno promuovere il reddito di cittadinanza per tutti coloro che siano privi di lavoro o che non abbiano un reddito sufficiente per una sopravvivenza dignitosa, calcolato sulla base dell’equivalente mensile del SALARIO MINIMO, da introdurre per legge. Si tratta di sanare, secondo regole stabilite e sottoposte ad una verifica periodica, un elementare principio di giustizia sociale nei confronti di quei “cittadini senza rete”, completamente esposti agli imprevisti personali e/o sociali e privi di qualsiasi garanzia. La Regione, sempre in un regime di concertazione, potrebbe avviare una grande campagna di comunicazione sul tema contestualmente alle procedure per l’accertamento degli aventi diritto, in modo da proporre un modello di welfare moderno ed efficiente, orientato alla persona piuttosto che “all’italiana”, gravante cioè esclusivamente sulle famiglie e, in particolare, sulle donne.

sabato 13 marzo 2010

Festa dell'Avanti

Le elezioni regionali devono essere vissute come una grande occasione per i cittadini per poter incidere sulla propria vita quotidiana e non come un surrogato di qualcos'altro: un riflesso delle politiche nazionali o una conferma ideologica di schieramento. Tutto concorre a definire questa direzione, ma concorre altresì a confermare la disaffezione dei cittadini per la politica e soprattutto a ridurla ad una contrapposizione insanabile, facendo dimenticare che invece la politica, soprattutto quella locale, si occupa di attuare concrete soluzioni per i problemi del territorio, secondo una logica unitaria, secondo un quadro di sistema coerente con i principi di carattere ideale che ispirano i singoli partiti e gli schieramenti.

Le regionali sono quindi innanzitutto l'occasione per far capire che la tanto sbandierata disaffezione per la politica per noi, per noi che siamo sinceramene democratici, progressisti, laici e orientati al cambiamento e alla modernità non esiste.

Sono l'occasione da parte dei cittadini per confermare la propria partecipazione alla gestione della cosa pubblica e per dimostrare la propria capacità e la propria volontà di partecipazione. E come dice il famoso cantautore "la libertà è partecipazione". Insomma abbiamo tutti la possibilità di dimostrare che siamo liberi. Democratici e liberi. E in piena libertà determiniamo le politiche sociali, i servizi al cittadino, l'organizzazione della sanità, la gestione del territorio, come tutelare il paesaggio, le politiche culturali, le politiche dei trasporti, che sono tutte competenze della regione.

Abbiamo inoltre la possibilità di dimostrare che il “nuovo inizio possibile” di cui parla la Bonino è possibile anche assicurando una vera e reale partecipazione delle donne alla gestione della cosa pubblica. E’ possibile dimostrare che il Lazio - proprio perché "grande regione d'Europa" - può essere governato anche da donne, donne concrete, capaci, attive, competenti, propositive. Che hanno idee e la capacità di perseguirle per il bene comune.

Idee sul lavoro: realizziamo pubblici elenchi di domande e di offerte di lavoro, elenchi consultabili da tutti tramite terminali messi a disposizione della cittadinanza in ogni capoluogo di provincia, in ogni stazione, in ogni aeroporto, in tutti i luoghi pubblici, da tutti coloro che hanno bisogno di lavoro, per soddisfare la domanda di lavoro, per far emergere il lavoro nero e sommerso, per favorire l'integrazione degli immigrati, per rendere la regione al servizio dei cittadini e non viceversa. Idee sull'ambiente: contro il nucleare e a favore di una produzione pulita, che è collegata ad un'economia sana e che produce lavoro buono e qualificato. Idee sulla sanità, potenziando i presidi della sanità pubblica sul territorio, idee sui servizi sociali e culturali, finalmente al servizio del cittadino che voglia continuare il proprio percorso formativo anche oltre l’età scolare. Insomma politiche che finalmente diano uno scossone a questa società ingessata e ferma, ancora provinciale e clericale, con norme che snelliscano abitudini e consuetudini arretrate e siano decisamente ed inequivocabilmente orientate verso un’idea di società laica, dinamica e razionale.

venerdì 12 febbraio 2010

Scuola: qualche idea per l'Italia che verrà

Questo freddo riordino amministrativo, esibito enfaticamente come una legge "epocale" dalla ministra Gelmini che l'ha varata, purtroppo manca della prerogativa fondamentale di una riforma: un'idea di sè, un'ipotesi di fondo che la connoti e che, di conseguenza, espliciti qual è l'ipotesi di futuro che, attraverso la formazione dei nostri giovani, l'Italia intende promuovere. Il provvedimento Gelmini semplifica invece di razionalizzare; sottrae risorse piuttosto che investire; in alcuni casi quasi abbassa il limite dell'obbligo scolastico invece di innalzarlo ai 19 anni, come dovrebbe essere; non affronta, allo stato, il tema cruciale del reclutamento della classe docente.
Mancando di quell'ethos necessario per un settore così delicato e strategico, questa legge non affronta con un'idea innovativa, con uno sguardo nuovo sul presente e sul futuro, l'inarrestabile declino della scuola pubblica italiana, che non solo è drammaticamente marginale rispetto alla definizione dei processi innovativi e alla promozione dello sviluppo culturale e civile della Nazione, ma non è neanche più in grado di offrire una solida, diffusa, uniforme cultura di base: solo il 20% degli italiani sa vermante leggere, scrivere e contare e anche tra i laureati vige, in alta percentuale, un sostanziale analfabetismo.
In questo quadro drammatico andrebbe dunque pensata una vera riforma della scuola media, il compartimento più a rischio del nostro sistema scolastico, che potrebbe prevedere due settori: il primo, ampliato a cinque anni - dai 12 ai 16 - in grado di delineare la vera fisonomia culturale di base di tutta la popolazione, grazie al trattamento omogeneo di ogni sapere, gestito con gli strumenti più avanzati, in un tempo scoalstico ampio, ancora strutturato in classi. Una scuola media davvero formativa, improntata ad un sano equilibrio fra teoria - eventualemnte organizzata nelle ore della mattinata - e la pratica di laboratori, estendibili nel pomeriggio. Laboratori scientifici, musicali, artistici, linguistici, ma anche di lettura, di scrittura, di ascolto. Una scuola media ricca di saperi tecnologici, ma che non trascuri, nella teoria e nella pratica, la promozione delle conoscenze scientifiche - di cui soffriamo di un deficit davvero preoccupante - e di quelle umanistiche, dalla letteratura e dalla filosofia - che ancora rappresentano il plus del nostro modello formativo, come riconosciuto anche in ambito internazionale - alla storia e alla geografia, ormai fruibili anche attraverso sistemi tecnologici davvero molto amichevoli.
Assicurata una solida formazione di base, che si occupi anche dello sviluppo fisico, oltre che intellettuale dei giovani fino a 16 anni, attraverso un'attività sportiva giornaliera, questo approccio olistico alla persona si dovrebbe specializzare nei tre anni seguenti secondo modalità più vicine alla dimensione universitaria. Sarebbero utili infatti, nei tre anni successivi delle "scuole medie superiori", piuttosto che semplificazioni, lo smantellamento della strutturazione in classi e l'organizzazione della didattica in corsi, secondo un impianto strutturato su materie prevalenti e sussidiarie. I corsi delle superiori si avvarrebbero di materie professionalizzanti e dunque obbligatorie per l'indirizzo prescelto, ma consentirebbero una maggiore libertà sulle propedeuticità, comprensive anche di discipline ora solamente trattate all'università, come la sociologia o l'antropologia ad esempio, che, a scelta dello studente, secondo un criterio coerente concordato con i docenti, potrebbero legittitmamente entrare nel curriculum formativo di qualsiasi indirizzo.
Un sistema simile, veramente laico e scevro da ideologismi, seriamente orientato alla persona, oltre a garantire una solida e omogena formazione, che favorirebbe la consapevolezza delle successive scelte, riqualificherebbe i professori. Questi finalmente potrebbero essere "maestri", quegli insegnati "maestri", non reduci da "libro Cuore", ma pedagoghi professionisti degli anni 2000 che, padroneggiando le nuove tecnologie e grazie alle proprie qualità intellettuali, favorite da un'ipotetica, efficace rete di servizi culturali, sarebbero messi in grado di promuovere l'interesse, l'attenzione e, perchè no, l'amore per la cultura nei propri allievi.

martedì 9 febbraio 2010

Della Gelmini o della finta riforma epocale

All'indomani dell'approvazione di una riforma che, a dire del premier, permetterà alle nostre scuole di essere "comparate a quelle dei paesi europei più avanzati", essendo stata definita "epocale" dalla stessa ministra che l'ha varata, una qualche riflessione che non ammicchi esclusivamente alle tematiche sindacali è d'obbligo.
In questa riforma, la presunzione di cambiamento radicale dell'andazzo scolastico italiano si definisce intorno al meccanismo della semplificazione. Si tratta insomma, prevalentemente, di un riordino di natura amministrativa, piuttosto che di una vera e propria riforma che, per definirsi tale, ha bisogno di una prerogativa fondamentale: un'idea di sè, un'ipotesi di fondo che la connoti e che, di conseguenza, faccia capire a tutti qual è l'ipotesi di futuro che, attraverso la formazione dei nostri giovani, l'Italia intende promuovere. Non è mancanza da poco, se consideriamo che il fenomeno dell'abbandono scolastico precoce in Italia continua ad avere dimensioni rilevanti, se paragonato ai paesi membri della comunità europea e dell'area OCSE; non è mancanza da poco se osserviamo il diffuso fenomeno della fuga dei cervelli e delle braccia. Tutti giovani, tutti giovani sui quali la Nazione, oltre che i singoli, hanno investito e che sempre più numerosi comprano biglietti di sola andata, senza essere sostituiti da altri giovani europei, secondo un turn over virtuoso e depauperando così, inesorabilmente, il patrimonio di potenzialità intellettuale e lavorativa di una Nazione che, proprio per questo, diventa sempre più povera.
Una mancanza grave dicevo, anche a fronte della costatazione dell'inarrestabile declino della scuola pubblica italiana che, lungi dall'essere, ormai da decenni, il luogo di formazione delle classi dirigenti future, occupa un posto drammaticamente marginale e periferico nella definizione dei processi innovativi e non è più in grado di promuovere lo sviluppo culturale e civile della Nazione. Bastino i drammatici dati sull'alfabetizzazione raccolti al 2006: secondo specialisti internazionali, solo il 20% degli italiani sa veramente leggere, scrivere e contare e anche tra i laureati vige, in alta percentuale, un sostanziale analfabetismo.
In questo quadro drammatico si inserisce questo tentativo di riforma che, allo stato, non affronta uno dei nodi centrali: i criteri e la modalità della selezione delle classi docenti di tutti i livelli scolastici. Purtroppo, normalmente, la scuola italiana non forma nessuno; nella migliore delle ipotesi e grazie alle capacità individuali e a forti motivazioni personali, talora forma insegnanti; ma ormai non è più assolutamente in grado di formare chi realmente occorre: i "maestri", quegli insegnanti "maestri", ai quali non penso come reduci da Libro Cuore, ma pedagoghi professionisti degli anni 2000 che, padroneggiando le nuove tecnologie e grazie alle proprie qualità intellettuali, favorite da una ipotetica, efficace rete di servizi culturali, siano messi in grado di promuovere l'interesse, l'attenzione e, diciamo così, l'amore per la cultura nei propri allievi.
Questa riforma "fredda", amministrativa è dunque ben lontana dall'interpretare l'ethos necessario per un settore così delicato, al pari della sanità e della giustizia, che interviene in maniera così profonda sullo sviluppo e sulla vita dei cittadini; ed è questo "non avere a cuore" il bene più importante di una Nazione - la cultura, la formazione, lo sviluppo armonico dei propri giovani - che non ha permesso di generare nessuna idea innovativa, nessuno sguardo nuovo sul presente e sul futuro, mettendo, anzi, in alcuni casi, in discussione il limite dell'obbligo di frequenza scolastica, attualmente fino a 16 anni, ma che sarebbe auspicabile alzare ai 19. E soprattutto una riforma così concepita continua a non garantire una solida, uniforme e diffusa cultura di base che, come si è detto, è ormai drammaticamente in discussione nel nostro Paese. Andrebbe dunque pensata una vera riforma della scuola media, il settore più a rischio del nostro sistema scolastico, sia per la qualità degli insegnanti, spesso pedagogicamente inadeguati ad affrontare una fase della crescita dei ragazzi tra le più complesse e delicate, sia per la mancanza cronica di elementi strutturali di sostegno all'azione didattica. Penso insomma ad una scuola media, ancora strutturata in classi, che copra un arco di 5 anni, dai 12 ai 16, in grado di costituire la vera fisionomia culturale di base di tutta la popolazione, durante la quale ogni sapere venga trattato allo stesso modo e con gli strumenti più avanzati, in un tempo scolastico ampio. Una scuola media davvero formativa, con numerose materie obbligatorie (lingua e letteratura italiana e latina, matematica, fisica, chimica, biologia, inglese, storia, geografia), improntata ad un sano equilibrio fra teoria - eventualmente organizzata nelle ore della mattinata - e la pratica di laboratori, estendibili nel pomeriggio. Laboratori scientifici, musicali, artistici, linguistici, ma anche di lettura, di scrittura, di ascolto. Una scuola media ricca di saperi tecnologici, ma che non trascuri, nella teoria e nella pratica, la promozione delle conoscenze scientifiche - di cui soffriamo un deficit davvero preoccupante - e di quelle umanistiche, dalla letteratura e dalla filosofia, alla storia e alla geografia, ormai fruibili attraverso sistemi tecnologici davvero innovativi e molto amichevoli, e che ancora rappresentano il plus del nostro modello formativo, come riconosciuto anche in ambito internazionale. Assicurata una solida formazione di base, che si occupi anche dello sviluppo fisico, oltre che intellettuale dei giovani fino a 16 anni, attraverso l'obbligatorietà dell'attività sportiva giornaliera, questo approccio olistico alla persona si dovrebbe specializzare nei tre anni seguenti secondo modalità più vicine alla dimensione universitaria. Sarebbero utili infatti, nei tre anni successivi delle "scuole medie superiori", piuttosto che semplificazioni, lo smantellamento della strutturazione in classi e l'organizzazione della didattica in corsi, secondo un impianto fatto di materie prevalenti e sussidiarie. Questo sistema, oltre a garantire una solida e omogenea formazione sulla quale costruire individualmente una specificità di saperi, propedeutica per la scelta universitaria, riqualificherebbe i docenti delle attuali scuole medie e delle superiori, i quali potrebbero sviluppare proficue sinergie con i docenti universitari. I corsi delle superiori si avvarrebbero di materie professionalizzanti e dunque obbligatorie per l'indirizzo prescelto, ma consentirebbero una maggiore libertà sulle propedeuticità, comprensive anche di discipline ora solamente trattate all'università, come la sociologia o l'antropologia o la logica e la retorica, che, a buon diritto e soprattutto a scelta dello studente, potrebbero entrare nel curriculum formativo di qualsiasi indirizzo. Naturalmente questo sistema, che favorisce la professionalizzazione e nello stesso tempo l'ampliamento delle conoscenze, in una scuola concepita ancora con un prevalente carattere formativo piuttosto che specialistico (quello sarebbe tutto universitario) a tutto vantaggio della consapevolezza della scelta universitaria, presuppone un tempo scolastico più ampio e strutture adeguate che lo sostengano, e un sistema di valutazione che tenga conto delle più moderne e accreditate teorie glottodidattiche.
Il tentativo di riforma dunque dovrebbe essere orientato a quello che nelle teorie economiche si conosce come "la soddisfazione del cliente", grazie ad un approccio alla persona veramente laico, scevro da moralismi e ideologismi, da cui troppo spesso le politiche orientate alla scuola sono state condizionate.