venerdì 12 febbraio 2010

Scuola: qualche idea per l'Italia che verrà

Questo freddo riordino amministrativo, esibito enfaticamente come una legge "epocale" dalla ministra Gelmini che l'ha varata, purtroppo manca della prerogativa fondamentale di una riforma: un'idea di sè, un'ipotesi di fondo che la connoti e che, di conseguenza, espliciti qual è l'ipotesi di futuro che, attraverso la formazione dei nostri giovani, l'Italia intende promuovere. Il provvedimento Gelmini semplifica invece di razionalizzare; sottrae risorse piuttosto che investire; in alcuni casi quasi abbassa il limite dell'obbligo scolastico invece di innalzarlo ai 19 anni, come dovrebbe essere; non affronta, allo stato, il tema cruciale del reclutamento della classe docente.
Mancando di quell'ethos necessario per un settore così delicato e strategico, questa legge non affronta con un'idea innovativa, con uno sguardo nuovo sul presente e sul futuro, l'inarrestabile declino della scuola pubblica italiana, che non solo è drammaticamente marginale rispetto alla definizione dei processi innovativi e alla promozione dello sviluppo culturale e civile della Nazione, ma non è neanche più in grado di offrire una solida, diffusa, uniforme cultura di base: solo il 20% degli italiani sa vermante leggere, scrivere e contare e anche tra i laureati vige, in alta percentuale, un sostanziale analfabetismo.
In questo quadro drammatico andrebbe dunque pensata una vera riforma della scuola media, il compartimento più a rischio del nostro sistema scolastico, che potrebbe prevedere due settori: il primo, ampliato a cinque anni - dai 12 ai 16 - in grado di delineare la vera fisonomia culturale di base di tutta la popolazione, grazie al trattamento omogeneo di ogni sapere, gestito con gli strumenti più avanzati, in un tempo scoalstico ampio, ancora strutturato in classi. Una scuola media davvero formativa, improntata ad un sano equilibrio fra teoria - eventualemnte organizzata nelle ore della mattinata - e la pratica di laboratori, estendibili nel pomeriggio. Laboratori scientifici, musicali, artistici, linguistici, ma anche di lettura, di scrittura, di ascolto. Una scuola media ricca di saperi tecnologici, ma che non trascuri, nella teoria e nella pratica, la promozione delle conoscenze scientifiche - di cui soffriamo di un deficit davvero preoccupante - e di quelle umanistiche, dalla letteratura e dalla filosofia - che ancora rappresentano il plus del nostro modello formativo, come riconosciuto anche in ambito internazionale - alla storia e alla geografia, ormai fruibili anche attraverso sistemi tecnologici davvero molto amichevoli.
Assicurata una solida formazione di base, che si occupi anche dello sviluppo fisico, oltre che intellettuale dei giovani fino a 16 anni, attraverso un'attività sportiva giornaliera, questo approccio olistico alla persona si dovrebbe specializzare nei tre anni seguenti secondo modalità più vicine alla dimensione universitaria. Sarebbero utili infatti, nei tre anni successivi delle "scuole medie superiori", piuttosto che semplificazioni, lo smantellamento della strutturazione in classi e l'organizzazione della didattica in corsi, secondo un impianto strutturato su materie prevalenti e sussidiarie. I corsi delle superiori si avvarrebbero di materie professionalizzanti e dunque obbligatorie per l'indirizzo prescelto, ma consentirebbero una maggiore libertà sulle propedeuticità, comprensive anche di discipline ora solamente trattate all'università, come la sociologia o l'antropologia ad esempio, che, a scelta dello studente, secondo un criterio coerente concordato con i docenti, potrebbero legittitmamente entrare nel curriculum formativo di qualsiasi indirizzo.
Un sistema simile, veramente laico e scevro da ideologismi, seriamente orientato alla persona, oltre a garantire una solida e omogena formazione, che favorirebbe la consapevolezza delle successive scelte, riqualificherebbe i professori. Questi finalmente potrebbero essere "maestri", quegli insegnati "maestri", non reduci da "libro Cuore", ma pedagoghi professionisti degli anni 2000 che, padroneggiando le nuove tecnologie e grazie alle proprie qualità intellettuali, favorite da un'ipotetica, efficace rete di servizi culturali, sarebbero messi in grado di promuovere l'interesse, l'attenzione e, perchè no, l'amore per la cultura nei propri allievi.

martedì 9 febbraio 2010

Della Gelmini o della finta riforma epocale

All'indomani dell'approvazione di una riforma che, a dire del premier, permetterà alle nostre scuole di essere "comparate a quelle dei paesi europei più avanzati", essendo stata definita "epocale" dalla stessa ministra che l'ha varata, una qualche riflessione che non ammicchi esclusivamente alle tematiche sindacali è d'obbligo.
In questa riforma, la presunzione di cambiamento radicale dell'andazzo scolastico italiano si definisce intorno al meccanismo della semplificazione. Si tratta insomma, prevalentemente, di un riordino di natura amministrativa, piuttosto che di una vera e propria riforma che, per definirsi tale, ha bisogno di una prerogativa fondamentale: un'idea di sè, un'ipotesi di fondo che la connoti e che, di conseguenza, faccia capire a tutti qual è l'ipotesi di futuro che, attraverso la formazione dei nostri giovani, l'Italia intende promuovere. Non è mancanza da poco, se consideriamo che il fenomeno dell'abbandono scolastico precoce in Italia continua ad avere dimensioni rilevanti, se paragonato ai paesi membri della comunità europea e dell'area OCSE; non è mancanza da poco se osserviamo il diffuso fenomeno della fuga dei cervelli e delle braccia. Tutti giovani, tutti giovani sui quali la Nazione, oltre che i singoli, hanno investito e che sempre più numerosi comprano biglietti di sola andata, senza essere sostituiti da altri giovani europei, secondo un turn over virtuoso e depauperando così, inesorabilmente, il patrimonio di potenzialità intellettuale e lavorativa di una Nazione che, proprio per questo, diventa sempre più povera.
Una mancanza grave dicevo, anche a fronte della costatazione dell'inarrestabile declino della scuola pubblica italiana che, lungi dall'essere, ormai da decenni, il luogo di formazione delle classi dirigenti future, occupa un posto drammaticamente marginale e periferico nella definizione dei processi innovativi e non è più in grado di promuovere lo sviluppo culturale e civile della Nazione. Bastino i drammatici dati sull'alfabetizzazione raccolti al 2006: secondo specialisti internazionali, solo il 20% degli italiani sa veramente leggere, scrivere e contare e anche tra i laureati vige, in alta percentuale, un sostanziale analfabetismo.
In questo quadro drammatico si inserisce questo tentativo di riforma che, allo stato, non affronta uno dei nodi centrali: i criteri e la modalità della selezione delle classi docenti di tutti i livelli scolastici. Purtroppo, normalmente, la scuola italiana non forma nessuno; nella migliore delle ipotesi e grazie alle capacità individuali e a forti motivazioni personali, talora forma insegnanti; ma ormai non è più assolutamente in grado di formare chi realmente occorre: i "maestri", quegli insegnanti "maestri", ai quali non penso come reduci da Libro Cuore, ma pedagoghi professionisti degli anni 2000 che, padroneggiando le nuove tecnologie e grazie alle proprie qualità intellettuali, favorite da una ipotetica, efficace rete di servizi culturali, siano messi in grado di promuovere l'interesse, l'attenzione e, diciamo così, l'amore per la cultura nei propri allievi.
Questa riforma "fredda", amministrativa è dunque ben lontana dall'interpretare l'ethos necessario per un settore così delicato, al pari della sanità e della giustizia, che interviene in maniera così profonda sullo sviluppo e sulla vita dei cittadini; ed è questo "non avere a cuore" il bene più importante di una Nazione - la cultura, la formazione, lo sviluppo armonico dei propri giovani - che non ha permesso di generare nessuna idea innovativa, nessuno sguardo nuovo sul presente e sul futuro, mettendo, anzi, in alcuni casi, in discussione il limite dell'obbligo di frequenza scolastica, attualmente fino a 16 anni, ma che sarebbe auspicabile alzare ai 19. E soprattutto una riforma così concepita continua a non garantire una solida, uniforme e diffusa cultura di base che, come si è detto, è ormai drammaticamente in discussione nel nostro Paese. Andrebbe dunque pensata una vera riforma della scuola media, il settore più a rischio del nostro sistema scolastico, sia per la qualità degli insegnanti, spesso pedagogicamente inadeguati ad affrontare una fase della crescita dei ragazzi tra le più complesse e delicate, sia per la mancanza cronica di elementi strutturali di sostegno all'azione didattica. Penso insomma ad una scuola media, ancora strutturata in classi, che copra un arco di 5 anni, dai 12 ai 16, in grado di costituire la vera fisionomia culturale di base di tutta la popolazione, durante la quale ogni sapere venga trattato allo stesso modo e con gli strumenti più avanzati, in un tempo scolastico ampio. Una scuola media davvero formativa, con numerose materie obbligatorie (lingua e letteratura italiana e latina, matematica, fisica, chimica, biologia, inglese, storia, geografia), improntata ad un sano equilibrio fra teoria - eventualmente organizzata nelle ore della mattinata - e la pratica di laboratori, estendibili nel pomeriggio. Laboratori scientifici, musicali, artistici, linguistici, ma anche di lettura, di scrittura, di ascolto. Una scuola media ricca di saperi tecnologici, ma che non trascuri, nella teoria e nella pratica, la promozione delle conoscenze scientifiche - di cui soffriamo un deficit davvero preoccupante - e di quelle umanistiche, dalla letteratura e dalla filosofia, alla storia e alla geografia, ormai fruibili attraverso sistemi tecnologici davvero innovativi e molto amichevoli, e che ancora rappresentano il plus del nostro modello formativo, come riconosciuto anche in ambito internazionale. Assicurata una solida formazione di base, che si occupi anche dello sviluppo fisico, oltre che intellettuale dei giovani fino a 16 anni, attraverso l'obbligatorietà dell'attività sportiva giornaliera, questo approccio olistico alla persona si dovrebbe specializzare nei tre anni seguenti secondo modalità più vicine alla dimensione universitaria. Sarebbero utili infatti, nei tre anni successivi delle "scuole medie superiori", piuttosto che semplificazioni, lo smantellamento della strutturazione in classi e l'organizzazione della didattica in corsi, secondo un impianto fatto di materie prevalenti e sussidiarie. Questo sistema, oltre a garantire una solida e omogenea formazione sulla quale costruire individualmente una specificità di saperi, propedeutica per la scelta universitaria, riqualificherebbe i docenti delle attuali scuole medie e delle superiori, i quali potrebbero sviluppare proficue sinergie con i docenti universitari. I corsi delle superiori si avvarrebbero di materie professionalizzanti e dunque obbligatorie per l'indirizzo prescelto, ma consentirebbero una maggiore libertà sulle propedeuticità, comprensive anche di discipline ora solamente trattate all'università, come la sociologia o l'antropologia o la logica e la retorica, che, a buon diritto e soprattutto a scelta dello studente, potrebbero entrare nel curriculum formativo di qualsiasi indirizzo. Naturalmente questo sistema, che favorisce la professionalizzazione e nello stesso tempo l'ampliamento delle conoscenze, in una scuola concepita ancora con un prevalente carattere formativo piuttosto che specialistico (quello sarebbe tutto universitario) a tutto vantaggio della consapevolezza della scelta universitaria, presuppone un tempo scolastico più ampio e strutture adeguate che lo sostengano, e un sistema di valutazione che tenga conto delle più moderne e accreditate teorie glottodidattiche.
Il tentativo di riforma dunque dovrebbe essere orientato a quello che nelle teorie economiche si conosce come "la soddisfazione del cliente", grazie ad un approccio alla persona veramente laico, scevro da moralismi e ideologismi, da cui troppo spesso le politiche orientate alla scuola sono state condizionate.