mercoledì 26 settembre 2012

Scuola: torna il concorsone....

La scuola italiana riprende il reclutamento dei professori per la prima volta dal 1999, e nonostante l’abbondante decennio trascorso, lo fa con i soliti metodi che ripropongono le solite contraddizioni. Un paio di esempi: se si avverte l’esigenza (sacrosanta) di svecchiare il corpo docente scolastico, perché si escludono dalla partecipazione i laureati dal 2003 al 2012? Se si intende privilegiare il merito - che, in assenza di criteri che lo definiscano precisamente, si configura anche come esperienza concreta acquisita nelle aule - perché si obbligano a sottoporsi alle prove odierne coloro (circa 200.000) che insegnano da “precari regolari”, molti dei quali già abilitati, azzerando così le differenze con gli altri candidati e generando conflitti sociali? Per non parlare poi del mancato riordino concorsuale che riguarda i professori di religione - e della legittimità di tale insegnamento in una società che si professa laica e multietnica - ancora ad esclusivo appannaggio della chiesa cattolica o del discutibile criterio che attribuisce ad un test preselettivo la possibilità di accedere alle prove per l’esercizio di una attività la cui peculiarità, a prescindere dalla disciplina insegnata, è la gestione critica della complessità. Allora, forse, il nodo, al netto delle polemiche sindacali in atto e dei ricorsi già previsti all’indomani della pubblicazione del bando, è nel metodo. Forse nel terzo millennio è la logica del “concorsone” a dover essere superata; forse nella società della conoscenza e della formazione permanente il reclutamento del personale docente andrebbe strettamente legato al suo percorso formativo post-universitario, riconoscendo finalmente alla “didattica” un proprio status, diversificato a seconda del livello scolastico, che si avvalga di tecniche e di logiche proprie e specifiche, da studiare, acquisire e praticare. Una specializzazione insomma che all’ingresso possa prevedere una seria valutazione anche sulle attitudini psicologiche all’insegnamento, oltre che propriamente culturali, dell’aspirante docente, selezionato anche durante la frequenza. Un esame finale, fatto solo di prove teorico-pratiche nelle aule, a contatto con gli studenti, finalizzato a mettere in evidenza anche le qualità pedagogiche del docente, dovrebbe servire a stilare una graduatoria di merito, in base alla quale “vincere” la cattedra. Tentativi di scuole post-universitarie, destinate alla preparazione all’insegnamento sono stati fatti con l’istituzione delle SSIS, Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario, regionali e interateneo, attivate nel 1999 e chiuse nel 2009, attualmente sostituite dal TFA-Tirocinio Formativo Attivo. La direzione è giusta ma, prive di quella logica che mette al centro della preparazione del docente il vero attore della scuola, lo studente, si sono attestate e si attestano sulle solite logiche parossistiche di selezione da test sui “contenuti” e di accesso sostanzialmente basato sul censo. La scuola italiana dunque, vero motore della crescita economica e della rinascita culturale di questa Nazione, deve essere investita da una vera e propria rivoluzione copernicana, preparata da una trasformazione radicale nella sua struttura: una minima anticipazione e contrazione del ciclo primario; un ampliamento della scuola secondaria di primo grado, vero asse portante della formazione di base della popolazione; il quinquennio del ciclo superiore caratterizzato da una didattica strutturata non più per classi statiche, ormai del tutto anacronistiche, ma in base a corsi di materie fondamentali e propedeutiche, a seconda dell’indirizzo scelto. Insieme all’ampliamento e alla modernizzazione dell’offerta didattica si otterrebbe così finalmente una scuola laica, scevra da ideologismi, seriamente orientata alla persona, in grado di garantire una solida e diffusa cultura di base e di riconoscere e preparare le eccellenze, sanando il gap con le altre nazioni europee, in virtù di insegnanti “maestri”, non reduci da “libro Cuore”, ma pedagoghi professionisti degli anni 2000 che, grazie alle nuove tecnologie e favoriti da una efficace rete di servizi culturali (che non c’è), potrebbero così essere messi in grado di promuovere l’interesse, l’attenzione e, perché no, l’amore per la cultura nei propri allievi.

martedì 5 giugno 2012

Riccardo Lombardi: per una società diversamente ricca

Riccardo Lombardi:"Socialismo o barbarie.Per una società diversamente ricca"http://www.youtube.com/watch?v=wHsCJ4O13KU

Riccardo Lombardi: per una società diversamente ricca

L’occasione di attualizzare il pensiero politico di Riccardo Lombardi che ci si presenta oggi è particolarmente opportuna proprio in un momento storico nel quale si dibatte molto sull’ipotesi del nostro incontro – “una società diversamente ricca” – cioè sulla validità del concetto stesso di vivibilità della società occidentale odierna. 
Si dibatte per esempio, come dimostra una indagine del Sole 24 Ore del 2009, sulla validità e sull’ adeguatezza dell’indice PIL, in relazione ad un altro indice, il BIL, che sia in grado di misurare il benessere, lo sviluppo e la qualità della vita di una nazione. Il Benessere Interno Lordo, al contrario del PIL, parte dal presupposto che non sia solo il denaro l’unico fattore determinante per qualificare il livello di vita delle persone, ma che si debbano inserire almeno altri otto fattori, quali le condizioni di vita materiali, l’istruzione, la salute, le attività personali, la partecipazione alla vita politica, i rapporti sociali, l’ambiente, la sicurezza economica e fisica. Da quella ricerca, è emersa una mappa del BIL di ogni singola provincia italiana che, rispetto al PIL, proponeva un’immagine d’insieme molto diversa della nostra Nazione, un’immagine molto più “sofferente”, se pensiamo che lo scarto sfavorevole tra i due indici, per esempio nella provincia di Roma, era di circa 74 punti percentuali, su una base 100. E quali erano i dati che portavano a questa maggiore “sofferenza”? beh, non bisogna essere necessariamente esperti economisti o famosi editorialisti del Sole 24 Ore per sapere con certezza che almeno due fattori, la formazione nel suo insieme – includendo la scuola, l’università, la cultura, il diritto alla formazione permanente, i servizi culturali – e la bassa percentuale del lavoro delle donne e dei giovani, fanno scendere, e di molto, il tasso del BIL. 
Ricordiamoci che “il fattore D”, cioè il fattore “donna”, o meglio la carenza di fattore “d” che, per quanto riguarda l’occupazione, in Italia, si attesta ad un 46%, secondo le più recenti stime dell’Ocse, che ci rende simili solo al Messico e alla Turchia, sarebbe necessario per la ripresa dell’intera economia italiana, della quale rappresenterebbe un positivo volano di sviluppo, se si trasformasse in un 60% che è la media europea e l’obbiettivo della “Strategia di Lisbona”. E questo non solo per rispondere ad un elementare principio di “opportunità pari”, peraltro sancito dalla nostra Costituzione, ma anche, come dicevo prima, per far tornare a crescere l’Italia, come dimostra l’esperienza di società occidentali più avanzate, dagli Stati Uniti al Giappone, che promuovendo un’agenda di cambiamenti strutturali che rilanciano l’occupazione femminile, hanno dato vita a quella che viene definita la “Womenenomics”, che ha favorito l’emersione di nuovi talenti femminili, con il relativo aumento di consumi che hanno aperto nuove fette di mercato, per esempio nel settore dell’artigianato terziario, relativo ai servizi alla persona. Per non parlare di una società vecchia, come la nostra che, se non fa largo ai giovani e non favorirà l’aumento delle nascite attraverso il supporto al lavoro delle donne, non avrà gambe per correre e per competere con un mondo giovane e globalizzato. 
A questo proposito, dunque, torna il mònito di Lombardi, che già nel 1976 proponendo l’alternativa socialista come unica possibilità di uscita riformatrice dal capitalismo, in opposizione al centrosinistra e al compromesso storico, presagiva una società che prevedesse la riduzione delle disuguaglianze attraverso un diverso assetto del lavoro e del consumo che, in quegli anni, si definiva nei termini della piena occupazione; che prevedesse una diversa cultura e struttura economica che tenesse conto anche della qualità dell’ambiente, dell’interesse collettivo, dove per collettivo si intendeva anche la qualità della vita dei lavoratori che ne fanno parte, di una società insomma che fosse orientata ad una trasformazione culturale per la quale il fine della vita non è l’accumulazione di ricchezza fine a se stessa, ma un giusto equilibrio tra vita lavorativa, vita affettiva e sviluppo culturale dell’essere umano per una società non più ricca, ma “diversamente ricca”. 
Molto opportuno dunque questo rientrare sulle tesi lombardiane, proprio quando tutto in Italia sembra congiurare contro di esse, contro gli aspetti che ho appena accennato e che mi sono parsi quelli più attualizzabili del suo pensiero. 
Al contrario di quello che accade in Europa, dove Hollande e il suo “Socialismo della realtà” trionfano e trionfano anche in nome del fatto che, come ha dichiarato il presidente francese, «la scuola è il fondamento della Repubblica», «è il fondamento del nostro patto democratico». Bene. Si tratta di una dichiarazione che può essere assunta così, integralmente, anche dai socialisti italiani, anche da tutti quei socialisti che si ispirano ad una “ragione” laica, che punta al merito, ad un merito concreto, misurabile, e che tanto per cominciare deve partire da una prima e fondamentale battaglia, peraltro condivisa con l’Europa: l’abbattimento drastico del tasso di abbandono scolastico precoce. Si tratta del primo e fondamentale tassello per il rilancio della scuola e dell’occupazione italiana del Terzio Millennio. La dispersione scolastica, che riguarda persone tra i 18 e i 24 anni che hanno un’istruzione secondaria inferiore o elementare e che non sono più in formazione, è un fenomeno che in Europa riguarda più di 6 milioni di giovani, pari al 14,4% della popolazione. In Italia questa percentuale sale al 19,2%, secondo una ricerca dell’Isfol del 2011. Un tasso che l’Italia condivide con paesi come la Romania, Malta, Portogallo, Cipro. Una pecentuale che l’Unione Europea ha deciso, nella strategia “Europa 2020”, di abbattere al di sotto del 10%, per rompere il circolo vizioso della esclusione sociale, della povertà e della miseria e per favorire una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva. Così come direbbe forse oggi Riccardo Lombardi, in una società globalizzata che non poteva prevedere, ma che, grazie ad una moderna “alternativa socialista”, deve poter essere “diversamente ricca”.

martedì 8 maggio 2012

NASCE LA PAGINA WEB "SCUOLA" DEL PSI

All'indomani della strepitosa vittoria socialista in Francia - grazie ad un candidato che anche nel dibattito "faccia a faccia" con il suo avversario ha mostrato una grande competenza e sensibilità nei confronti dell'istruzione pubblica - si apre la nuova pagina ufficiale del Partito Socialista Italiano dedicata alla scuola. Questo sarà il luogo di discussione e dibattito che il Partito destinerà ai temi dell'Istruzione, della Scuola, dell'Università, della Cultura e rappresenterà lo spazio per riflessioni, ma soprattutto per proposte ed iniziative, a testimonianza della centralità di questi temi per la politica socialista italiana, consapevole che la Scuola oggi è un'emergenza nazionale. La base di questa politica è rappresentata dalla condivisione da parte nostra della finalità stabilita dall'Unione Europea sul contrasto nei confronti dell'abbandono scolastico precoce, che è il primo fondamentale tassello per il rilancio della scuola e dell’occupazione italiana del Terzo Millennio. Il Partito Socialista Italiano è storicamente impegnato a favore della scuola pubblica e la prima battaglia che oggi vuole condurre è quella contro l’abbandono scolastico precoce: per dispersione scolastica si intende quel fenomeno che riguarda persone tra i 18 e i 24 anni che hanno un’istruzione secondaria inferiore o anche meno e che non sono più in formazione. In base ai dati ISFOL 2011, questo è un fenomeno che interessa più di 6 milioni di giovani nell’Unione Europea, pari ad una percentuale del 14,4% e che in Italia riguarda il 19,2%. Questo tasso così elevato l’Italia lo condivide con la Romania, con Malta, con il Portogallo e con Cipro, mentre 8 stati membri hanno già raggiunto il traguardo del 10%: Austria, Repubblica Ceca, Finlandia, Lituania, Slovenia, ecc… Questo interesse è in linea con le finalità dell’Unione Europea che tra i cinque obbiettivi individuati nella strategia "Europa 2020" ha compreso quello di ridurre la dispersione precoce al di sotto del 10% per rompere il circolo vizioso della esclusione sociale, della povertà e della miseria e per favorire una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva. L’azione dunque dovrebbe essere quella di attuare, dopo il monitoraggio e l’individuazione dei principali fattori di abbandono, politiche di prevenzione, di intervento e di compensazione, cioè di seconde chances, anche per gli adulti. Chiunque voglia contribuire può scrivere a scuola@partitosocialista.it.

venerdì 16 marzo 2012

IUS SOLI, IUS SANGUINIS

La schizofrenia che caratterizza le politiche italiane sull’immigrazione, e che oscilla dai respingimenti alle sanatorie, nasce dal fatto che non ci rassegniamo ad essere passati da Nazione di emigranti a Nazione di immigrati; da Nazione che storicamente ha privilegiato il criterio biologico del “sangue” per stimolare il senso di appartenenza di generazioni che con l’Italia ormai hanno poco a che fare, a Nazione che deve tener conto di un criterio più funzionale, più politico, come quello della stanzialità territoriale. O meglio viviamo ancora questa duplicità, anche se con caratteristiche diverse, come ci dice l’alta percentuale di “nuovi emigrati” italiani che riguarda soprattutto i giovani e soprattutto i giovani talenti.
Da dati del 2010 provenienti dall’anagrafe degli italiani residenti all’estero oltre 300.000 giovani non ancora quarantenni hanno lasciato il Paese tra il 2000 e il 2010, quindi con una media di 30.000 l’anno. Ma se consideriamo che solo un espatriato su due si iscrive all’AIRE, dobbiamo pensare questa media raddoppiata, cioè circa 60.000 l’anno, dato che coinciderebbe sia con l’indagine risalente al 2010 di Confimpreseitalia – che ci dice che oltre il 70% di questi giovani è laureato – sia con i dati ISTAT che ci confermano che nel solo 2009 più di 80.000 italiani, giovani e meno giovani, si sono cancellati dall’anagrafe per espatrio.
Nel contempo viviamo la dimensione di un grande Paese meta di un imponente fenomeno immigratorio in ragione – secondo i dati ISTAT al 1° gennaio 2011 – di circa 4.500.000 di stranieri residenti, cioè il 7,5% di tutta la popolazione residente in Italia, di cui i rumeni rappresentano il maggior numero con il loro milione circa di immigrati presenti sul territorio nazionale. Questi numeri danno quindi la dimensione del fenomeno e da soli bastano a spiegare il perché di tanta attenzione. Ma il dato quantitativo rimanda subito a questioni che hanno a che fare non solo con l’aspetto più propriamente giuridico, con le procedure, ma soprattutto con la sua dimensione culturale.
Partiamo dallo scenario: l’immigrazione in Italia e in Europa non è caratterizzata da quell’epos che pure aveva l’arrivo dei nostri emigranti in America, che comunque sentivano di entrare a far parte di una grande Nazione che aveva bisogno di loro: gli immigrati oggi arrivano in Italia non tanto per farte del grande popolo italiano, bensì perché fuggiaschi per motivi politici o economici o per ricongiungimenti familiari, senza contare il fatto che l’arrivo in Italia è per molti solo l’approdo per entrare in Europa. L’iter poi al quale l’accoglienza italiana sottopone le persone migranti, molti delle quali provenienti da luoghi sostanzialmente estranei alla cultura dello Stato di diritto, non accentua certo l’aspetto della legalità: l’immigrato, giunto sui barconi o sui pullman, è di solito destinato ad un periodo di clandestinità, all’incontro con una burocrazia spesso incomprensibile e a difficoltà di inserimento dovute all’estraneità linguistica, a differenza della Spagna, della Francia o dell’Inghilterra, che sono nazioni storicamente caratterizzate da immigrazioni di popolazioni già molto affini dal punto di vista linguistico e culturale. Tutto questo scenario certo non favorisce né il senso di appartenenza né il rispetto per il Paese ospitante e quindi l’integrazione sociale e civile. Cionondimeno gli immigrati desiderano la cittadinanza italiana.
Ecco perché essere diventati paese di immigrazione ci mette di fronte alla necessità di elaborare un nuovo progetto di cittadinanza: oggi la cittadinanza non è più esclusivamente un concetto burocratico-anagrafico, ma rimanda alla costruzione dell’identità politico-giuridica dei soggetti, alla modalità della loro partecipazione politica e della fruizione dei propri diritti politici, civili e sociali e all’osservanza dei propri doveri. L’esercizio consapevole dei diritti politici, che è il contenuto essenziale della cittadinanza, come afferma l’art.1 della Costituizione – prerogativa fondamentale del popolo è la sovranità - presuppone la conoscenza di saperi che passano per un progetto culturale, cioè per il rapporto della persona immigrata con l’educazione ai valori civili e sociali, insomma per l’istruizione e la cultura.
La trasformazione da popolazione – cioè il dato numerico della stanzialità su un territorio – a popolo, come una parte integrata e integrante del popolo italiano, significa innanzitutto realizzare un progetto di cittadinanza che passi per l’istruzione e la formazione dei nuovi italiani, nel pieno rispetto delle culture di provenienza.
Per i bambini nati in Italia in fondo è più semplice: la scuola è la principale agenzia di integrazione e quindi, con la frequenza scolastica, i ragazzi si integrano “automaticamente”, pur continuando a non essere cittadini italiani e pur mancando sempre nelle nostre classi mediatori culturali in grado sia di evitare l’assimilazione e quindi di rispettare le culture di provenienza, sia di abbassare il livello di “shock” con la cultura di origine. Questo spesso rappresenta un ostacolo non da poco, come dimostrano i numerosi casi di cronaca nera che coinvolgono soprattutto le bambine e le giovani donne provienienti per lo più dai Paesi a religione mussulmana.
Ma per chi arriva già adulto, il problema è tutto da affrontare: ecco perché è indispensabile e urgente stabilire dei percorsi che prevedano certificazioni della conoscenza della lingua e della cultura italiana. È necessario una specie di passaporto linguistico, che certifichi la conoscenza della lingua non solo al livello della sopravvivenza, ma che metta la persona straniera nelle condizioni di esercitare i propri diritti, cioè di comprendere per esempio notiziari e discutere di politica. Un processo che coinvolga tutto il sistema formativo, Università comprese, che sono le istituzioni che potrebbero legittimamente essere deputate al rilascio della certificazione, dopo un esame comune su tutto il territorio nazionale, a prescindere anche dal percorso di formazione individuale.
La certificazione delle competenze linguistiche e culturali presuppone l’adeguamento della scuola e del sistema formativo italiano nel suo complesso a questa realtà che oggi, anche in presenza di intere classi a maggioranza di bambini immigrati, che sono così diffuse nelle scuole delle nostre città, subisce il fenomeno, facendolo gestire, di solito, alla buona volontà, alle competenze e alle capacità individuali del singolo docente, privo com’è di un quadro normativo di riferimento adeguato alle nuove circostanze, privo cioè di quel progetto che rimanda ad un’ idea di cittadinanza attiva e partecipante.
Solo perseguendo un siffatto progetto di integrazione saremo in grado di promuovere la cittadinanza invece che certificarla solo burocraticamente e saneremo quel drammatico deficit che sottrae molti immigrati all’esercizio consapevole dei poteri pubblici, e che favorisce la costruzione di identità di cittadini consapevoli e partecipanti e non di immigrati rinchiusi nei ghetti o nelle balineau. Non è interesse del paese veder crescere nel proprio territorio gruppi estranei e non è una soluzione negare la cittadinanza; così facendo si tengono le persone al di fuori della compagine del popolo, ma non si supera per niente il fatto che sono qui. Si introduce semmai un ulteriore fattore di discriminazione in un contesto di convivenza già difficile. Non si può quindi continuare a precarizzare l’immigrato, nella logica del lavoratore ospite, del gasterbeiter e non basta solamente disciplinare la concessione della cittadinanza, perché il far parte di un popolo è legato in buona parte a fattori extragiuridici: non resta dunque che puntare sull’integrazione e quindi sulla conoscenza certificata della lingua, delle istituzioni e della cultura della nostra Nazione.