venerdì 16 marzo 2012

IUS SOLI, IUS SANGUINIS

La schizofrenia che caratterizza le politiche italiane sull’immigrazione, e che oscilla dai respingimenti alle sanatorie, nasce dal fatto che non ci rassegniamo ad essere passati da Nazione di emigranti a Nazione di immigrati; da Nazione che storicamente ha privilegiato il criterio biologico del “sangue” per stimolare il senso di appartenenza di generazioni che con l’Italia ormai hanno poco a che fare, a Nazione che deve tener conto di un criterio più funzionale, più politico, come quello della stanzialità territoriale. O meglio viviamo ancora questa duplicità, anche se con caratteristiche diverse, come ci dice l’alta percentuale di “nuovi emigrati” italiani che riguarda soprattutto i giovani e soprattutto i giovani talenti.
Da dati del 2010 provenienti dall’anagrafe degli italiani residenti all’estero oltre 300.000 giovani non ancora quarantenni hanno lasciato il Paese tra il 2000 e il 2010, quindi con una media di 30.000 l’anno. Ma se consideriamo che solo un espatriato su due si iscrive all’AIRE, dobbiamo pensare questa media raddoppiata, cioè circa 60.000 l’anno, dato che coinciderebbe sia con l’indagine risalente al 2010 di Confimpreseitalia – che ci dice che oltre il 70% di questi giovani è laureato – sia con i dati ISTAT che ci confermano che nel solo 2009 più di 80.000 italiani, giovani e meno giovani, si sono cancellati dall’anagrafe per espatrio.
Nel contempo viviamo la dimensione di un grande Paese meta di un imponente fenomeno immigratorio in ragione – secondo i dati ISTAT al 1° gennaio 2011 – di circa 4.500.000 di stranieri residenti, cioè il 7,5% di tutta la popolazione residente in Italia, di cui i rumeni rappresentano il maggior numero con il loro milione circa di immigrati presenti sul territorio nazionale. Questi numeri danno quindi la dimensione del fenomeno e da soli bastano a spiegare il perché di tanta attenzione. Ma il dato quantitativo rimanda subito a questioni che hanno a che fare non solo con l’aspetto più propriamente giuridico, con le procedure, ma soprattutto con la sua dimensione culturale.
Partiamo dallo scenario: l’immigrazione in Italia e in Europa non è caratterizzata da quell’epos che pure aveva l’arrivo dei nostri emigranti in America, che comunque sentivano di entrare a far parte di una grande Nazione che aveva bisogno di loro: gli immigrati oggi arrivano in Italia non tanto per farte del grande popolo italiano, bensì perché fuggiaschi per motivi politici o economici o per ricongiungimenti familiari, senza contare il fatto che l’arrivo in Italia è per molti solo l’approdo per entrare in Europa. L’iter poi al quale l’accoglienza italiana sottopone le persone migranti, molti delle quali provenienti da luoghi sostanzialmente estranei alla cultura dello Stato di diritto, non accentua certo l’aspetto della legalità: l’immigrato, giunto sui barconi o sui pullman, è di solito destinato ad un periodo di clandestinità, all’incontro con una burocrazia spesso incomprensibile e a difficoltà di inserimento dovute all’estraneità linguistica, a differenza della Spagna, della Francia o dell’Inghilterra, che sono nazioni storicamente caratterizzate da immigrazioni di popolazioni già molto affini dal punto di vista linguistico e culturale. Tutto questo scenario certo non favorisce né il senso di appartenenza né il rispetto per il Paese ospitante e quindi l’integrazione sociale e civile. Cionondimeno gli immigrati desiderano la cittadinanza italiana.
Ecco perché essere diventati paese di immigrazione ci mette di fronte alla necessità di elaborare un nuovo progetto di cittadinanza: oggi la cittadinanza non è più esclusivamente un concetto burocratico-anagrafico, ma rimanda alla costruzione dell’identità politico-giuridica dei soggetti, alla modalità della loro partecipazione politica e della fruizione dei propri diritti politici, civili e sociali e all’osservanza dei propri doveri. L’esercizio consapevole dei diritti politici, che è il contenuto essenziale della cittadinanza, come afferma l’art.1 della Costituizione – prerogativa fondamentale del popolo è la sovranità - presuppone la conoscenza di saperi che passano per un progetto culturale, cioè per il rapporto della persona immigrata con l’educazione ai valori civili e sociali, insomma per l’istruizione e la cultura.
La trasformazione da popolazione – cioè il dato numerico della stanzialità su un territorio – a popolo, come una parte integrata e integrante del popolo italiano, significa innanzitutto realizzare un progetto di cittadinanza che passi per l’istruzione e la formazione dei nuovi italiani, nel pieno rispetto delle culture di provenienza.
Per i bambini nati in Italia in fondo è più semplice: la scuola è la principale agenzia di integrazione e quindi, con la frequenza scolastica, i ragazzi si integrano “automaticamente”, pur continuando a non essere cittadini italiani e pur mancando sempre nelle nostre classi mediatori culturali in grado sia di evitare l’assimilazione e quindi di rispettare le culture di provenienza, sia di abbassare il livello di “shock” con la cultura di origine. Questo spesso rappresenta un ostacolo non da poco, come dimostrano i numerosi casi di cronaca nera che coinvolgono soprattutto le bambine e le giovani donne provienienti per lo più dai Paesi a religione mussulmana.
Ma per chi arriva già adulto, il problema è tutto da affrontare: ecco perché è indispensabile e urgente stabilire dei percorsi che prevedano certificazioni della conoscenza della lingua e della cultura italiana. È necessario una specie di passaporto linguistico, che certifichi la conoscenza della lingua non solo al livello della sopravvivenza, ma che metta la persona straniera nelle condizioni di esercitare i propri diritti, cioè di comprendere per esempio notiziari e discutere di politica. Un processo che coinvolga tutto il sistema formativo, Università comprese, che sono le istituzioni che potrebbero legittimamente essere deputate al rilascio della certificazione, dopo un esame comune su tutto il territorio nazionale, a prescindere anche dal percorso di formazione individuale.
La certificazione delle competenze linguistiche e culturali presuppone l’adeguamento della scuola e del sistema formativo italiano nel suo complesso a questa realtà che oggi, anche in presenza di intere classi a maggioranza di bambini immigrati, che sono così diffuse nelle scuole delle nostre città, subisce il fenomeno, facendolo gestire, di solito, alla buona volontà, alle competenze e alle capacità individuali del singolo docente, privo com’è di un quadro normativo di riferimento adeguato alle nuove circostanze, privo cioè di quel progetto che rimanda ad un’ idea di cittadinanza attiva e partecipante.
Solo perseguendo un siffatto progetto di integrazione saremo in grado di promuovere la cittadinanza invece che certificarla solo burocraticamente e saneremo quel drammatico deficit che sottrae molti immigrati all’esercizio consapevole dei poteri pubblici, e che favorisce la costruzione di identità di cittadini consapevoli e partecipanti e non di immigrati rinchiusi nei ghetti o nelle balineau. Non è interesse del paese veder crescere nel proprio territorio gruppi estranei e non è una soluzione negare la cittadinanza; così facendo si tengono le persone al di fuori della compagine del popolo, ma non si supera per niente il fatto che sono qui. Si introduce semmai un ulteriore fattore di discriminazione in un contesto di convivenza già difficile. Non si può quindi continuare a precarizzare l’immigrato, nella logica del lavoratore ospite, del gasterbeiter e non basta solamente disciplinare la concessione della cittadinanza, perché il far parte di un popolo è legato in buona parte a fattori extragiuridici: non resta dunque che puntare sull’integrazione e quindi sulla conoscenza certificata della lingua, delle istituzioni e della cultura della nostra Nazione.