martedì 14 settembre 2021

 

A proposito dell’elefante: considerazioni sulla retorica di Virginia Raggi

Cerchiamo di riflettere su alcune strategie discorsive che potrebbero contribuire a condurre Virginia Raggi nuovamente alla vittoria elettorale: l’esperienza che si ha della politica è innanzitutto il linguaggio politico che viene usato. Saperlo decodificare, rendendone espliciti i meccanismi, emancipa l’elettore dal tentativo di essere coinvolto nella costruzione di un universo discorsivo inclusivo, in cui l’errore macroscopico, la furbizia e le contraddizioni, pur spesso evidenti, perdono la loro valenza reale e, venendo minimizzate, rientrano coerentemente nella costruzione di un non ben definito mondo migliore di là da venire. In questo caso, quello creato artificialmente, ad hoc da Virginia Raggi.

di Maria Squarcione


Allora, l’abbiamo lasciata in televisione nel 2016 all’appello finale con un primo piano sparato sulla faccia che implorava di essere votata per «cambiare verso a questa città» e poi, dopo la vittoria, felice, mentre proclamava da un palco «che il vento sta cambiando», e ce la ritroviamo oggi, il 18 maggio scorso, ospite del programma di Floris, che conferma la sua ricandidatura e si offre alle domande di un piccolo parterre, tutto sommato innocuo. Chiede scusa la Sindaca – più volte come ha fatto notare il giornalista Caprarica – per «errori dettati dall’inesperienza», ma rivendica la sua tenacia, quella dimostrata per essere cresciuta a «pane e mazzate» durante questi cinque anni, al termine dei quali, dopo aver sanato «una macchina amministrativa devastata», finalmente può dirsi carica di esperienza. Eh sì, perché i suoi «cinque anni di amministrazione ne valgono quindici in un ministero» a detta sua e non augura a nessuno i suoi primi due anni di mandato. E così via. Ancora, parla del risanamento dei «250 milioni di buco [a proposito dei bilanci AMA] passato sotto il naso dei cosiddetti esperti», che le hanno impedito di approvare tre bilanci di seguito della municipalizzata che si occupa dei rifiuti a Roma e della fatica di riprendere «le redini di un’amministrazione che era allo sbando». Rivela che grazie alla sua giunta si stanno spendendo fondi europei che prima non venivano utilizzati; che Roma finalmente sta tornando ad essere il centro cui tutti tendono, dagli sportivi, agli attori, ai gruppi cinematografici (Netflix), come a quelli tecnologici (Apple), sottinteso grazie alla sua sindacatura, e che finalmente si cominciano a vedere i risultati del grande impegno profuso finora, dal rifacimento delle strade, alla riapertura di asili nido o del Mausoleo di Augusto, al mantenimento dell’ATAC pubblica, alla fornitura dell’acqua in un non ben precisato quartiere di Roma, dove mancava o all’acquisto di 900 autobus nuovi per le esigenze delle periferie. Non ama parlare di alleanze o di strategie politiche, perché «il patto si fa con i cittadini» e se le eventuali alleanze non si costruiscono su precisi punti programmatici in comune, queste sono destinate a crollare «al primo mohito». Così parla la Sindaca «da amministratore», come ama definirsi, rifuggendo qualsiasi ruolo che la circoscriva in una dimensione nazionale e squisitamente politicista. Virginia Raggi è la Sindaca di Roma e, in virtù dell’esperienza acquisita – a parte qualche “sbavatura” della quale si è scusata pubblicamente, come nel caso delle arance al sindaco Marino, perché «solo un sindaco di Roma può giudicare un sindaco di Roma» – e del gran lavoro fatto sul piano operativo – basti guardare la città che è piena di cantieri, osserva – chiede che gli elettori la scelgano in nome della continuità, perché «senza continuità, Roma si fermerebbe e sarebbe una tragedia».

Questo, in sintesi, l’ordito della sua argomentazione, espressa in modo sicuro e chiaro e che ce la restituisce mediaticamente molto diversa da quella ragazza che spesso sembrava telecomandata dalla Casaleggio e associati. Ora, a molti, per “smontare” il suo punto di vista così positivo sul proprio governo, sembrerà opportuno e sufficiente il fact-checking tra le promesse fatte in campagna elettorale e i risultati effettivamente ottenuti o la semplice osservazione dello scarsissimo livello del decoro e della qualità della vita cittadina negli ultimi anni; e in ambedue i casi probabilmente basterebbe fermarsi alle prime tre/quattro osservazioni per capire quanto la Sindaca poco sia stata all’altezza del suo compito e delle aspettative che aveva suscitato. Ma qui interessa non tanto insistere sull’ovvio (ma l’impulso all’apertura dei cantieri a Roma è merito della Sindaca o della legge nazionale sui superbonus?), bensì cercare di riflettere su alcune strategie discorsive che potrebbero contribuire a condurre Virginia Raggi nuovamente alla vittoria elettorale.

Strategie di comunicazione

Cominciamo dalla nota argomentazione, usata ed abusata, di rimandare la responsabilità delle difficoltà di governo “a quelli di prima”. Certamente la Raggi oggi non usa più questo escamotage dialettico in modo rozzo, così come aveva fatto nei primi tempi della sua consiliatura, attribuendo totalmente la responsabilità del degrado di Roma alle vecchie amministrazioni, tanto da far scatenare i social in una messe di esilaranti meme che richiamavano in causa i “precedenti”, fino a Nerone. Oggi, dice la Sindaca, il momento più basso della vita municipale lo si è raggiunto con il fenomeno di Mafia Capitale, al quale, per la verità, l’allora Sindaco Marino era completamente estraneo: da qui le scuse. Ma l’argomento eziologico, cioè quello della ricerca delle cause, compare ancora nel suo ragionamento: ad esempio, nella trasmissione de La7, In Onda, del 3.9.2020, durante l’intervista rilasciata ai conduttori a proposito della sua ricandidatura da poco annunciata, la Raggi esordisce attribuendo alle lungaggini implicite nella legislazione italiana i tempi lunghi di realizzazione delle opere a Roma; oppure allo sforzo di risanamento di una macchina amministrativa devastata, la scarsa efficienza di alcune azioni di governo o al debito esoso lasciato da coloro che l’avevano preceduta o ancora al risanamento di una struttura lasciata a se stessa per decenni. Il nesso di causalità è proprio dell’argomentazione giuridica, e alla Sindaca, essendo avvocata, certamente non è sconosciuto. Ma questo argomento ha avuto anche la funzione retorica di contribuire a costruire il frame cognitivo della città come il luogo della rinascita dopo anni di incuria e malaffare, grazie all’azione salvifica dei 5Stelle. Tutta l’argomentazione moralistica dei pentastellati, durata anni, si “scioglie” finalmente nella vittoria purificatrice di Virginia Raggi, la cui missione principale è appunto la redenzione di Roma e la Capitale, a sua volta, è figura della redenzione nazionale. Insomma, una contrapposizione appunto etica, prima che politica, tra il Bene e il Male, uno scontro epico e totalmente manicheo, dove tutto il Bene, neanche a dirlo, sta dalla parte della Sindaca e tutto il Male dalla parte delle «amministrazioni precedenti», senza ulteriori distinzioni.

Non solo. Sempre a proposito del discorso retorico, la tradizione oratoria ci rimanda alla dottrina del discorso giudiziario e dello status causae, cioè al cuore della retorica forense. Questa prevedeva la possibilità della concessio o excusatio, ovvero il grado più debole della difesa, dove l’imputato non si difendeva più dall’accusa di aver commesso un certo reato, ma chiedeva perdono per averlo commesso. A sua volta, la richiesta di perdono poteva articolarsi come purgatio – cioè con la motivazione della buona fede da parte dell’accusato dovuta ad errore, ad un fatto casuale, a necessità – o come deprecatio, cioè semplicemente come supplica ed invocazione di perdono. Ebbene, le “scuse” sono entrate massicciamente nel discorso politico, come topos argomentativo, proprio grazie a Virginia Raggi e, in generale, a molti esponenti grillini, che le hanno spesso invocate a fronte di uno “sbaglio” – a prescindere dalla gravità del medesimo – in nome della loro “buona fede” o, come nel caso della Sindaca, dell’ammissione d’inesperienza. Ma a differenza della loro funzione retorica originaria, per la quale le scuse rimettevano completamente la sorte dell’accusato nelle mani di chi lo doveva giudicare ed implicavano, a fronte dell’ammissione del reato, l’obbligo di pagare il proprio debito e di scontare una pena, nel caso dell’uso politico invece, le scuse sono di per se stesse assolutorie e, per il solo fatto di averle pronunciate, rappresentano la panacea del problema eventualmente creato. Finanche il perdono cristiano, che avviene dopo la confessione e quindi dopo l’ammissione della colpa, prevede, per essere ottenuto, la penitenza. 

È fin troppo chiaro che questo spostamento di piani rientra in una strategia di avvicinamento tra il politico e l’uditorio di riferimento (tecnicamente, embrayage) – il politico sbaglia come tutti noi sbagliamo e come tutti noi chiede scusa – ma soprattutto è funzionale all’oscuramento del tema della responsabilità. Il politico, quando agisce, lo fa in nome della collettività, dalla quale ha ottenuto una delega e si assume quindi una responsabilità di natura pubblica. Le scuse sono un fatto puramente individuale che, sebbene doverose sul piano morale, non emancipano chi le pronuncia dal pagare un prezzo per un errore fatto in nome di quella collettività che si rappresenta. E tanto meno hanno una funzione auto-assolutoria.

Il circuito retorico dell’argomentazione che la Sindaca ha espresso durante l’intervista televisiva alla quale ci si riferisce si chiude con la peroratio, ampiamente utilizzata da Raggi anche nelle elezioni del 2016, come ricordato all’inizio di questo articolo. Ma al contrario della campagna elettorale precedente, stavolta la Sindaca non è più “supplicante”, ma può far riferimento alla competenza acquisita, che ora può esprimere sul piano della capacità, della credibilità, del poter e del saper fare: lei parla «da amministratore», ormai sa come funziona la «macchina amministrativa», non come i suoi avversari che «la fanno un po’ sorridere», perché le ricordano la se stessa di cinque anni fa. In quella campagna elettorale, la competenza dell’aspirante Sindaca era tutta giocata sul desiderio, sull’affidabilità del voler fare e del dover fare, mentre oggi Virginia Raggi sa di cosa parla e può mettere al servizio della città la continuità della sua consiliatura, l’esperienza maturata in cinque anni «non tranquilli» di governo, durante i quali si è fatta «le spalle grosse».

Un cambiamento di registro tutto sommato prevedibile, sorretto da un argomento facile, cioè quello ad hominem, che mette in relazione il ruolo e la funzione realmente svolti dalla Sindaca con le sue affermazioni. Una strategia difficilmente confutabile, se non entrando nel merito di ogni singolo provvedimento e valutandolo alla luce dei risultati ottenuti: la Sindaca invece propone un discorso “chiuso”, sillogistico, quasi meccanico, che parte da premesse certificate dalla sua parola, dunque vere e autorevoli, e che “stringe” gli interlocutori nella sua logica circolare di affermazioni apodittiche. Inevitabilmente ne viene fuori un ragionamento tutto sommato coerente al suo interno, soprattutto se se ne accettano le premesse, tutte legate al grande impegno profuso, alla “buona fede” delle proprie azioni, alle difficoltà riscontrate (sempre dovute a cause esogene) e alla necessità di porvi rimedio, senza interrompere proprio sul più bello un lavoro proficuo iniziato con il suo mandato. In caso contrario, incomberebbe sulla città una biblica «tragedia».

Questa, a grandi linee, la logica tutta retorica che la Sindaca ha fin qui utilizzato per motivare la sua ricandidatura, a fronte di una gestione della città che a molti sembra talmente negativa da non poter essere portata a supporto di questa scelta. Eppure, l’esperienza che si ha della politica è innanzitutto il linguaggio politico che viene usato. Saperlo decodificare, rendendone espliciti i meccanismi, emancipa l’elettore dal tentativo di essere coinvolto nella costruzione di un universo discorsivo inclusivo, in cui l’errore macroscopico, la furbizia e le contraddizioni, pur spesso evidenti, perdono la loro valenza reale e, venendo minimizzate, rientrano coerentemente nella costruzione di un non ben definito mondo migliore di là da venire. In questo caso, quello creato artificialmente, ad hoc da Virginia Raggi.

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